Tirò fuori quattro pagine di un quotidiano ingiallito e mi disse: “Spero ti porti fortuna per il lavoro”. Pensavo fosse una stampa, invece era la copia autentica del primo numero del Corriere della Sera, datata 5 marzo 1876.
Un dono tirato fuori da vecchie scartoffie in soffitta. Papà è un tipo taciturno, ma in quell’occasione avanzò tra i presenti: “Se non vi spiace la prendo io, mio figlio ha iniziato a scrivere e pare faccia sul serio”.
Nel lungo arco di tempo legato alla mia professione, questa copia del quotidiano milanese mi ha accompagnato come una sorta di amuleto. Senza inciampare nel solito luogo comune che fa di noi napoletani i malati cronici della superstizione, più che trattarlo da feticcio mummificato nel mio archivio, l’ho vissuto come interlocutore della memoria, leggendo e rileggendo articoli e titoli, orfani dell’arroganza delle immagini e della prepotenza dell’inserzione pubblicitaria nel marasma online dei nostri tempi.
“Pubblico, vogliamo parlarti in chiaro…”, esordiva il quotidiano neonato che in abbonamento costava, per tutto l’annata del 1876, L.12. Ho smesso di chiedermi per quante mani fosse passata questa copia, portandosi dietro la refurtiva del tempo che traccia la storia della professione del giornalista, dall’alba al tramonto, senza dimenticare i ricordi dei tanti inviati e collaboratori minori che hanno fatto camminare il Corriere della Sera per 140 anni.
Sabato 5 marzo, in occasione dell’emissione filatelica, appiccicherò il francobollo commemorativo sulla tuta da lavoro di mio padre, ripiegata in un cassetto alla periferia di Napoli, per ricordare a chi lo avesse dimenticato che questi fogli ingialliti, sopravvissuti ai traslochi della mia vita, ricompongono la storia di ciascuno.