E’ già da qualche anno che il desiderio d’oriente mi strazia, soprattutto perché è una passione quasi onnivora: mi affascina il medio così come l’estremo mi incuriosisce.
Il vicino ha bussato alla mia porta da poco, e lo ha fatto principalmente attraverso l’economia, il lavoro e la letteratura: l’Est Europa ha lanciato un grido a casa Torresani.
Inizialmente è stata la Margaret Mazzantini, con il suo straziante “Venuto al mondo”, ambientato quasi interamente a Sarajevo durante la guerra.
Poi c’è stata la strepitosa ballata “La cotogna di Istanbul “ di Paolo Rumiz, che non passa solo da Sarajevo, ma si intinge prepotentemente in tutti i Balcani.
E ieri ho terminato questa distonica e inconsapevole trilogia con “Mano nera”, il turbo-noir di Alberto Custerlina, che immagina la rinascita della mafia serba in una Sarajevo multietnica a nervi scoperti: ci ricorda la Haggadà, il libro illustrato dagli ebrei e messo in salvo dai mussulmani, simbolo di un mondo multietnico e possibile in qualche dove.
Sarajevo chiama? I Balcani gridano?
“Affan, faccia da predatore senza pace,
(…) Anche le lingue mescolava a caso
Per elogiare le genti bastarde
Sul muso degli idioti purosangue
Che avevano distrutto Sarajevo.”
(Paolo Rumiz)
Donne anatoliche, puttane slave, binari morti, zingari e cavalli, fiumi nomadi, odalische e partigiane, i briganti d’Erzegovina, le bande macedoni, le misteriose ebree di Samarcanda, le circasse a oriente del Mar Nero, il salmodiare bizantino, gli ussari e gli zappatori di Belgrado, gli indomabili briganti che assaltavano carovane, i bivacchi.
“Max adorava questo dei balcanici:
il loro riconoscersi la pancia,
di questo continente maledetto,
senza pretesa di esserne la mente,
quella cosa arrogante che sta a nord”
(Paolo Rumiz)
Che non sia stato casuale aprire il mio primo libro, L’inferno di Eros, con un pezzo intitolato “Danze Balcaniche”?
Dedicato a Sarajevo, sempre di più.