La scuola entra nel vivo, e si inizia a correre: i primi consigli di classe, le seconde e terze verifiche, gli annunci che riguardano l’esame di stato delle quinte, tutti i diversi progetti – attività alle quali si aggiungono, doverosamente, la piscina quotidiana, il cinema, le cene con gli amici. La ‘povna cerca di non perdere pezzi, ma ottobre scivola via velocissimo. Per questo, considerando l’orario di domani, ne approfitta, e si avvantaggia, con la recensione per il venerdì del libro.
Il giudizio finale è lievemente veicolato, per eccesso, dall’ammirazione per quel gusto sapiente per la trama, il respiro lungo della narrazione di intreccio, che Galbraith/Rowling dipana così bene anche in questa nuova prova (la terza, dal punto di vista degli esperimenti) di genere. In questa prospettiva, come qualunque lettore con una conoscenza anche solo discreta della serie (non saga, please) di HP sa, il gusto per la detection costituiva anche uno dei modi della storia che ha reso l’autrice meritatamente tanto celebre, perché la quete di Harry – se da un lato ammicca prepotente tanto all’epica, quanto al fantasy – si trasforma, in certi crucialissimi passaggi (per esempio in tanta parte del Principe mezzosangue) in una paziente ricostruzione enigmistica, indizio dopo indizio, di misteri del passato.
Proprio un “cold case”, per quanto non troppo lontano nel tempo, è quello che viene proposto al detective Cormoran Strike (veterano dell’Afghanistan) all’inizio del romanzo. E lui, fresco reduce da una rottura sentimentale, appena dotato di una segreteria temporanea (fidanzata altrove, ma ben lieta di giocare sia alla prima della classe, sia ai detective) al fianco, si trova, per un misto di curiosità e necessità (la paga è buona, il caso celebre), ad accettare. Una volta rotto l’equilibrio iniziale, Galbraith si trova a portare a spasso il lettore per una Londra che già si era divertita a dipingere con tratti di realismo romanzesco in Harry Potter, introducendo via via una serie di personaggi sui quali calibra con la consueta maestria il suo talento per la descrizione visiva di dettaglio. Non ci sono reali colpi di scena, l’intreccio si sdipana progressivo, abbastanza quietamente – ma la bravura dickensiana nel tenere il lettore attaccato alla pagine è sempre quella, ed è notevole e capace.
Se poi il lettore, come è difficile evitare di fare, una volta usciti dallo pseudonimo rivelato troppo presto, volesse andare a cercare dei paralleli narrativi in Harry Potter, non sarebbe difficile ritrovare, nei due personaggi del detective e della sua aiutante, pennellate singolari di un Malocchio Moody sopravvissuto alla morte nella notte dei sette sosia, e ora, al sicuro nel mondo dei babbani, riciclato come detective appunto (dalla guerra alla professione privata, con una gamba in meno ma l’intelligenza pronta – in fondo, è la storia di entrambi), aiutato da un personaggio femminile che (pur solo a tratti) ricorda Hermione Granger. Ma, del resto, anche il male (inteso come mancanza di senso morale, un concetto che alla Rowling è assai caro, da sempre), in questo romanzo, rievoca certi tratti suadenti di Tom Riddle.
Ma tutti questi elementi, che pure sono interessanti, e oggettivi, nel romanzo, rischiano comunque di distrarre dalla questione principale, che resta poi sempre quella: il primo volume di questa ‘prova di esordio’ (oramai già serie, con il secondo già pubblicato, lo scorso giugno) è in grado di superare, a pieno titolo, anche senza il gratificante confronto con la prova precedente, l’esame di qualità e coerenza narrativa.