Avevo quattordici anni, forse quindici.
C’era un ragazzo di quarta, a scuola, che mi paralizzava
le articolazioni. Con gli occhi color nocciola. Ogni volta che lo incrociavo
nei corridoi mi congelavo in un imbarazzo sconcertante. Mi rendeva più timida
di quanto già non fossi. Era uno dei “fighi” dell’istituto. Ce n’erano tre o
quattro che piacevano alle ragazze. A tutte le ragazze. Uno di loro arrivava in
moto, col chiodo, gli stivalazzi, i capelli lunghi e la barba di tre giorni:
negli anni Ottanta – quelli delle spalline, degli spolverini gialli e degli
zainetti Invicta – era un look notevole.
Una volta, me lo ricordo come fosse ieri, un amico comune mi presentò il ragazzo con gli occhi color nocciola. La leggenda narra che si fosse
accorto di me e che gli piacessi. Ci stringemmo la mano. Sentii il suo nome
pronunciato dalla sua stessa voce. Sei lettere non sono sufficienti a capire
granché di una persona. Non si può nemmeno stabilire se uno ha una bella voce
oppure no. In ogni caso. Il fatto di esserci conosciuti non cambiò nulla. Ci
salutammo nei corridoi e basta. Ricordo che provavo i sorrisi davanti allo
specchio: volevo che lui mi fermasse, che mi chiedesse delle cose. Volevo che
volesse parlare con me. Ma non accadde mai. Era una capra – in tutte le materie
tranne quelle artistiche – ma riuscì comuque a diplomarsi.
E
ciao.
La
timidezza è una carogna. Ma, se ti impegni, puoi arginarla. O domarla.
Quasi
vent’anni dopo, una congiunzione astrale particolarmente spiritosa me lo ha
fatto incontrare. Nella sua città. Che non è la mia. In un paese in cui non
vado quasi mai. A un concerto. C’era una fiumana di gente. Non mi sarebbe mai
saltato in mente di cercarlo fra la folla. Non ci pensavo più da una vita. Ma
lo vidi. Era identico ad allora. Qualche ruga in più. Qualche capello bianco.
Ma non c’era alcun dubbio. Sorpresa e per nulla imbarazzata, andai a salutarlo.
Sarebbe stato divertente ridere del passato: della mia imbranataggine di
allora. Lui mi guardò dall’alto in basso e inclinò una testa costellata di
punti interrogativi. Provai a farmi riconoscere. Gli dissi il mio nome. Il
cognome. Il diminutivo. La classe. Gli feci il nome della persona che ci aveva
presentato. Oh, niente. Fu imbarazzante. Eppure non avevo né preso né perso
dieci chili. Non avevo cambiato colore di capelli. Insomma, mi poteva
riconoscere. Sarà che non avevo più lo spolverino giallo? Girai i tacchi prima
di sentirmi una stalker e ci risi su con un’amica.
Da allora, ogni volta che penso a qualcuno legato al mio passato più remoto
mi domando se e cosa gli sia rimasto di me. Se i ricordi siano alterabili o
degradabili nella memoria di chi li conserva. O se siano ciocchi di legno che
prima o poi bisogna bruciare per scaldare il presente. O cos’altro.
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Avevo quattordici anni, forse quindici.
C’era un ragazzo di quarta, a scuola, che mi paralizzava
le articolazioni. Con gli occhi color nocciola. Ogni volta che lo incrociavo
nei corridoi mi congelavo in un imbarazzo sconcertante. Mi rendeva più timida
di quanto già non fossi. Era uno dei “fighi” dell’istituto. Ce n’erano tre o
quattro che piacevano alle ragazze. A tutte le ragazze. Uno di loro arrivava in
moto, col chiodo, gli stivalazzi, i capelli lunghi e la barba di tre giorni:
negli anni Ottanta – quelli delle spalline, degli spolverini gialli e degli
zainetti Invicta – era un look notevole.
Una volta, me lo ricordo come fosse ieri, un amico comune mi presentò il ragazzo con gli occhi color nocciola. La leggenda narra che si fosse
accorto di me e che gli piacessi. Ci stringemmo la mano. Sentii il suo nome
pronunciato dalla sua stessa voce. Sei lettere non sono sufficienti a capire
granché di una persona. Non si può nemmeno stabilire se uno ha una bella voce
oppure no. In ogni caso. Il fatto di esserci conosciuti non cambiò nulla. Ci
salutammo nei corridoi e basta. Ricordo che provavo i sorrisi davanti allo
specchio: volevo che lui mi fermasse, che mi chiedesse delle cose. Volevo che
volesse parlare con me. Ma non accadde mai. Era una capra – in tutte le materie
tranne quelle artistiche – ma riuscì comuque a diplomarsi.
E
ciao.
La
timidezza è una carogna. Ma, se ti impegni, puoi arginarla. O domarla.
Quasi
vent’anni dopo, una congiunzione astrale particolarmente spiritosa me lo ha
fatto incontrare. Nella sua città. Che non è la mia. In un paese in cui non
vado quasi mai. A un concerto. C’era una fiumana di gente. Non mi sarebbe mai
saltato in mente di cercarlo fra la folla. Non ci pensavo più da una vita. Ma
lo vidi. Era identico ad allora. Qualche ruga in più. Qualche capello bianco.
Ma non c’era alcun dubbio. Sorpresa e per nulla imbarazzata, andai a salutarlo.
Sarebbe stato divertente ridere del passato: della mia imbranataggine di
allora. Lui mi guardò dall’alto in basso e inclinò una testa costellata di
punti interrogativi. Provai a farmi riconoscere. Gli dissi il mio nome. Il
cognome. Il diminutivo. La classe. Gli feci il nome della persona che ci aveva
presentato. Oh, niente. Fu imbarazzante. Eppure non avevo né preso né perso
dieci chili. Non avevo cambiato colore di capelli. Insomma, mi poteva
riconoscere. Sarà che non avevo più lo spolverino giallo? Girai i tacchi prima
di sentirmi una stalker e ci risi su con un’amica.
Da allora, ogni volta che penso a qualcuno legato al mio passato più remoto
mi domando se e cosa gli sia rimasto di me. Se i ricordi siano alterabili o
degradabili nella memoria di chi li conserva. O se siano ciocchi di legno che
prima o poi bisogna bruciare per scaldare il presente. O cos’altro.
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