Il riposizionamento di Hamas di fronte alla “Primavera Araba”

Creato il 10 settembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Negli scorsi mesi diversi analisti avevano considerato come l’attuale situazione siriana, con una eventuale caduta del regime guidato da Bashar al-Asad, rappresentasse un duro colpo all’ Iran e indirettamente ai suoi alleati più stretti come Hezbollah ma anche Hamas. Tuttavia, i recenti sviluppi nell’intera regione (oltre alla Siria anche in Giordania ed Egitto) stanno dimostrando come l’organizzazione palestinese Hamas non solo sia in grado di superare indenne un cambio di regime in Siria, ma abbia anche una maturità politica tale da poter sfruttare a proprio vantaggio i nuovi delicati equilibri mediorientali, il tutto accentuando la diffidenza e i timori di Israele.

La svolta verso Doha

Hamas nasce ufficialmente nel 1987, in pieno clima di Prima Intifada, da una branca palestinese dei Fratelli Musulmani, da cui però ha goduto fin da subito di ampia autonomia tanto da riuscire ad emanciparsi completamente già a metà degli anni novanta, quando iniziò a guardare verso la Siria per stringere una nuova e reciprocamente vantaggiosa alleanza. Il legame con Damasco, quindi con l’Iran, crebbe ulteriormente a seguito della Seconda Intifada e delle operazioni israeliane a Gaza e nel sud del Libano, accentuando i contrasti con il partito moderato al-Fatah che dovette subire anche una dura sconfitta elettorale nel gennaio del 2006. Nei mesi immediatamente successivi al voto le tensioni da tempo covate tra le due fazioni palestinesi sfociarono poi in una profonda frattura seguita dalla totale rottura dei rapporti. Solamente dal maggio dell’anno scorso le relazioni tra Hamas e al-Fatah sono in fase di lenta riconciliazione, grazie soprattutto all’impegno del nuovo governo egiziano. Nel lasso di tempo trascorso tra il 2006 e il 2011 Hamas ha guardato con sempre maggiore interesse all’appoggio politico, finanziario e militare proveniente da Teheran, rafforzando così il legame a quella sorta di “Internazionale sciita” composta da Iran, Siria e Hezbollah libanesi. A partire però dalle rivolte che nella primavera del 2011 hanno interessato diversi Paesi mediorientali Hamas ha iniziato a valutare attentamente la propria posizione, misurando in maniera molto razionale le proprie azioni politiche, dettate sempre più da realismo piuttosto che da condizionamenti ideologici.

Una prima riflessione fatta ha portato a schierarsi in maniera decisa a favore delle rivolte popolari, indipendentemente dal fatto che queste si rivolgessero contro leader considerati ostili (Mubarak) o ad essi “vicini” quale appunto Bashar al-Asad. A differenza di quanto fatto da Hezbollah, che nonostante posizioni sempre più temperate ha continuato a dare il proprio appoggio al regime siriano1, la scelta intrapresa da Hamas di allontanarsi da Damasco ha premiato in termini di popolarità e credibilità agli occhi del mondo arabo. L’allontanamento dall’asse sciita ha portato diversi vantaggi tra cui quello di (re)inserire l’organizzazione nel ricco universo sunnita aprendo così alla possibilità di poter attingere alle immense risorse messe a disposizione dalle monarchie del Golfo. In particolare Hamas è stata presa sotto tutela del Qatar nella cui capitale, Doha, ha deciso di spostare la propria sede organizzativa che fino all’anno scorso era stanziata proprio a Damasco.
Nella prospettiva qatariota il sostegno ad Hamas ha una duplice finalità: da una parte serve ai propri interessi di sicurezza nazionale, dall’altra per rafforzare ulteriormente le proprie ambizioni volte a fare del Qatar un attore protagonista attivo ed influente in tutto il Medio Oriente.

La riconciliazione con la monarchia giordana

Grazie al sostegno e all’intermediazione del Qatar, Hamas ha potuto riallacciare i rapporti con la Giordania. Un riavvicinamento agevolato anche dai recenti sviluppi di politica interna che hanno interessato la monarchia hascemita, dove il re giordano Abdullah II si trova da diversi mesi alle prese con una difficile fase di transizione politica che, a seguito della ‘primavera araba’, lo ha obbligato ad iniziali seppur ancora molto timide aperture all’opposizione. Il segnale di distensione nei confronti di Hamas è arrivato direttamente da re Abdullah II che ha dato il proprio assenso alla visita in Giordania del leader di Hamas Khaled Meshaal, cittadino giordano espulso dal Paese nel 19992. Una decisione per nulla disinteressata da parte del monarca giordano, che vorrebbe il sostegno di Meshaal nella difficile mediazione con l’ala giordana dei Fratelli Musulmani organizzati nel Fronte d’Azione Islamico (FAI)3. Il principale sponsor delle revisioni costituzionali giordane in questi mesi è risultato essere proprio il FAI, il quale rimane il primo partito di opposizione grazie ad un diffuso sostegno tra la popolazione urbana guadagnato presentandosi come espressione della influente componente giordana di origine palestinese. Il FAI ha negli ultimi anni acquisito sempre maggiore peso politico ma, fino ad oggi, si è detto fermamente contrario ai progetti di riforma proposti dal re, annunciando per protesta di boicottare le prossime elezioni parlamentari previste per la fine di quest’anno.

L’interesse di Hamas ad acquisire credito agli occhi della monarchia giordana ruota intorno alla possibilità di poter tornare ad operare con maggiore libertà nei territori cisgiordani, da dove sono stati espulsi nel 2007 a seguito della frattura con al-Fatah. A favorire il recupero di popolarità e spazi di manovra in Cisgiordania è il crescente malessere provato da parte della popolazione palestinese, delusa e frustrata dagli scarsi risultati ottenuti dall’ANP ed alle prese con una profonda crisi economica a cui i leader dell’ANP, su tutti Mahmoud Abbas, non sembrano essere in grado di porre rimedio. Infatti, nonostante le rassicurazioni di nuovi fondi per l’ANP provenienti da Israele (40 milioni di dollari) e le promesse per futuri finanziamenti dall’Arabia Saudita ($100 mln), al momento gli unici a godere di ingenti finanziamenti sono invece gli uomini di Hamas che, grazie al sostegno proveniente da Doha, sono in grado fornire aiuti e sussidi economici alla popolazione palestinese facendo così crescere intorno a sé ulteriori consensi.

L’Egitto di Morsi come alleato e l’incognita della futura Siria

Altri sviluppi positivi per Hamas potranno arrivare dallo scenario siriano, qualora cada il regime di al-Asad: ciò che è quasi certo è che il dopo Asad vedrà ricoprire un ruolo di primo piano ai rappresentanti della vasta comunità sunnita del Paese tradizionalmente vicina alla causa palestinese. Hamas, una volta compresa l’entità delle rivolte, in maniera pragmatica ha deciso di allontanarsi dalla Siria evitando così eventuali situazioni di imbarazzo; trasferito il proprio quartier generale a Doha ha comunque continuato a coltivare i rapporti con diversi gruppi dell’opposizione al regime ed in particolare con alcuni degli esponenti più eminenti della società siriana. La speranza di Hamas è di vedere in futuro a Damasco un governo a maggioranza sunnita guidato dalla branca locale dei Fratelli Musulmani, in modo da poter contare su un ulteriore appoggio politico.

Il principale segnale di cambiamento si è però avuto più di un anno fa con il crollo del regime di Mubarak, che ha spinto il nuovo regime egiziano a promuovere una difficile mediazione tra le due anime palestinesi, Hamas e al-Fatah, raggiungendo nel maggio del 2011 un primo importante accordo sulla base di un reciproco riconoscimento. La recente vittoria alle elezioni presidenziali del candidato dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi ha convinto Hamas che l’Egitto possa diventare un alleato fondamentale nel controllo di Gaza, ed al tempo stesso imprescindibile sponsor per un definitivo riconoscimento dell’organizzazione a livello internazionale. Tutti calcoli che gli uomini di Hamas son ben consapevoli di dover fare, tenendo presente la difficile fase di transizione egiziana. Le ultime settimane, oltre a rendere ancora più instabili i delicati equilibri tra Fratelli Musulmani ed esercito, hanno anche fatto emergere alcuni dubbi nei rapporti tra l’Egitto e Hamas.

Fatto eclatante è stato un attacco improvviso da parte di un commando di estremisti islamici, secondo fonti del Cairo “terroristi palestinesi”, alla frontiera nord del Sinai che ha causato la morte di 16 militari egiziani. La risposta dei militari egiziani è stato un durissimo raid aereo nella stessa penisola del Sinai, con la morte di una ventina di miliziani. Secondo fonti arabe, dietro all’attacco portato avanti dai presunti “terroristi palestinesi” vi sarebbero i servizi segreti israeliani (Mossad) e lo stesso Consiglio Supremo egiziano che, preoccupati dai rapporti sempre più fitti instaurati dal Presidente Morsi con i leader di Hamas, avrebbero organizzato l’attacco ai militari egiziani nella speranza di raffreddare la benevolenza della popolazione egiziana nei loro confronti4. Una tale interpretazione, che risente della diffusa ossessione araba nei confronti di Israele, è servita al Presidente Morsi per giustificare la rimozione dall’incarico di Ministro della Difesa del Generale Mohamad Tantawi, leader dell’establishment militare, oltre che di altri quattro membri di spicco del Consiglio Supremo. L’esercito egiziano rappresenta al momento il miglior alleato di Gerusalemme, proprio per la capacità che i militari hanno di limitare il crescente potere della Fratellanza Musulmana ed al contempo garantire il rispetto degli accordi di pace siglati nel 1979. Garanzie subito riconfermate anche dal neo Ministro della Difesa Abdel-Fattah al-Sisi in un lungo incontro con Ehud Barak.

Un’altra plausibile interpretazione data all’attacco nei confronti dell’esercito egiziano è invece che Hamas, in accordo con il governo egiziano, abbia favorito la ritorsione con l’intento di assestare un duro colpo alle Brigate Ezzedin al-Qassam, considerate responsabili dell’attacco terroristico, rafforzando al contempo l’immagine del loro più importante interlocutore, ossia lo stesso Presidente Morsi5. Nate come ‘braccio armato’ di Hamas, le milizie armate di al-Qassam hanno più volte in questi mesi criticato la politica pragmatica dei leader di Hamas, considerata troppo poco intransigente nei confronti di Israele e della stessa al-Fatah. È altresì probabile che la rimozione dai propri incarichi dei cinque generali rientri in una serie di accordi prefissati dagli stessi militari con i Fratelli Musulmani con l’obiettivo di dare l’impressione che il Presidente Morsi detenga un effettivo potere di controllo del Paese, esercito compreso.

Conclusione

Se questi tre scenari, così come prospettati, dovessero svilupparsi nella direzione auspicata da Hamas, allora l’organizzazione potrebbe arrivare presto a godere di tre solidi alleati in Paesi vicini di Israele aumentando così ulteriormente la pressione nei confronti dello Stato ebraico. Agli scenari analizzati si deve aggiungere anche l’interesse sempre meno celato da parte della Turchia, con cui Hamas ha iniziato da tempo ad intrattenere rapporti sempre più stretti. Nel breve/medio periodo la transizione politica di Hamas non dovrebbe comportare grandi cambiamenti per le azioni politiche di Israele, le cui attenzioni sono al momento concentrate quasi esclusivamente sull’atomica iraniana. Tuttavia Gerusalemme per riuscire a disinnescare la futura minaccia rappresentata da un Hamas sempre più influente e popolare dovrà inevitabilmente riuscire a rilanciare l’immagine e la legittimità dell’ANP e del suo leader Mahmoud Abbas riaprendo i negoziati per la creazione di un futuro Stato palestinese.


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