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Il riscatto dalla povertà di spirito

Creato il 25 maggio 2011 da Albertocapece

Il riscatto dalla povertà di spiritoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Uno dei miei più vecchi amici veneziani, molto apprezzato dagli uomini per il suo rigore e da molte signore perchè assomiglia a Montgomery Clift nella tragedia americana, ha presieduto per un po’ ai suoi esordi la Commissione d’indagine sull’esclusione sociale che a quei tempi si chiamava molto meno eufemisticamente Commissione su temi della povertà. E ricordo che ci sembrava strano che uno studioso così sobrio e un po’ togato – in piena egemonia della Milano da bere – avesse assunto una dimensione profetica nel sostenere che erano diventate più profonde e scoscese le disuguaglianze, che c’erano nuove povertà e di ben più tremende e sanguinose avrebbero fatto irruzione nel pingue scenario del nostro recente benessere.

Anche a quei tempi Tremonti faceva sapere che chi non era convinto delle magnifiche sorti e progressive della nostra economia baldanzosa era un maledetto uccellaccio del malagurio, un disfattista, come oggi l’Istat che ci fa sapere che anche a marzo sono calate le vendite al dettaglio: meno 2 per cento rispetto a un anno fa, a cominciare dai consumi alimentari. E il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua ha illustrato alla Camera il rapporto annuale dell’istituto di previdenza dal quale risulta che oltre la metà delle pensioni erogate dall’Inps, precisamente il 50,8%, non arriva a 500 euro al mese, che solo l’11,1 delle pensioni si attesta tra i 1000 e i 1500 euro al mese, mentre quelle superiori ai 1500 sono il 9,9 per cento e il resto è pura indigenza.

È che il nostro immaginario per troppo tempo è stato occupato dal benessere dei piani alti, ostentato, ammirato, invidiato ed emulato, dall’affabulazione televisiva di una feconda stagione di consumi dissipati e di soddisfazioni istantanee, in grado di annullare anche i tempi del desiderio e dell’aspettativa, così come piace all’illusionismo allucinatorio e perentorio del grande imbonitore.
Eravamo già allora un paese fragile, segnato da fiumi sotterranei di impoverimento, vulnerato moralmente da una diffusa tolleranza dell’arbitrarietà e dell’illegalità, defraudato dei suoi sensi collettivi, dei valori condivisi, della coesione, della socialità. E fragile politicamente nell’intelaiatura minacciata delle sue istituzioni, nei processi e nell’ordito pericolante di una cittadinanza in larga parte lesionata.

Non erano invisibili i nuovi poveri, non erano invisibili gli impoveriti spesso occulti, mimetici, vergognosi e silenziosi, poco ritratti nella narrativa di un paese arrivista e ambizioso di attestarsi tra le potenze, ma impotente nel governarsi, nel crescere con equità, nello svilupparsi armoniosamente. Nella forbice sempre più ampia tra reale e virtuale tra fragilità concreta e ricchezza raccontata si tende da anni la terra di nessuno in cui maturano e trovano terreno fertile le frustrazioni, i risentimenti, la vergogna della nuova miseria e della frustrazione del proprio insuccesso, le rese morali e i fallimenti materiali. Insieme a qualcosa di più infame rancoroso e tossico: l’intolleranza per le debolezze dei deboli e l’ammirazione per la protervia dei ricchi, il fastidio per il dolore dei disperati e la tolleranza per i vizi dei potenti.

È questo che ha alimentato le fiammate populiste, che ha nutrito le retoriche disumane e ciniche della difesa di luoghi, beni e privilegi, che ha trasformato in valore il trialismo territoriale, come forma di risarcimento per un’identità di popolo e per un’aspettativa di futuro perduti o traumatizzati. È questo che ha prodotto un esodo dalla partecipazione e dalla politica.
Siano un paese che ha creduto di crescere declinando, in quella che è stata chiamata una modernizzazione regressiva. Che liquidava i punti di forza, bellezza, sapere, conoscenza, cultura, istruzione, creatività, che dissolveva aggregazioni sociali e rappresentanze di valori, sostituendole con gruppi di interesse corporativo, con alleanze opache basate sull’affiliazione e sul privilegio.

Eppure non so come, ma mi pare che ci sia in cielo qualche stella che può orientarci fuori dall’basso di questo spaesamento, dallo smarrimento del “noi”, dalla sofferenza della disillusione, dalla vergogna del nostro ripiegamento conformista. Si non le cinque stelle nemmeno un’auspicabile stella polare, ma un senso di riappropriazione, un bisogno di indirizzare la collera verso un senso comune e un riscatto mi pare ci sia, una luce neppure troppo debole, una lanterna come quella di diogene che ci fa ricordare che siamo uomini, no?


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