Magazine Lavoro
Nel bailamme di queste ore appare solo il cosiddetto “utilizzatore finale”, per dirla con le parole care all’avvocato Ghedini. Quasi scompaiono le tante ragazze, più o meno minorenni, che abbiamo visto sfilare nelle cronache dei giornali o nelle torbide sequenze televisive.
Era uno spaccato della nostra Italia, della nostra società. Ne siamo responsabili anche noi, imputati di aver permesso o magari avvallato un tale sfacelo. Ruyby e le sue sorelle fanno infatti parte dell’esercito ormai infinito delle precarie. Ragazze che sono state indotte a credere che sarebbe stato facile approdare a un lavoro appagante, magari nel mondo variopinto dello spettacolo, conquistare così agiatezza e dignità (si, dignità). Sedotte dalla possibilità di uno scambio. Dovevano concedere il proprio corpo, le proprie carezze, le proprie dolci parole a un essere considerato “flaccido”.
Un modo per evitare la fatica dello studio continuo, la lunga trafila delle attese, dei curricula cestinati, delle conoscenze e parentele da aggredire, dei sogni infranti, dei contrattini miserabili. L’uscita da una solitudine assillante per entrare in un improvviso paradiso, senza seguire il percorso difficile fatto proprio da tante loro compagne ben diversamente impegnate. Loro, invece, giovani certo “disposte a tutto”. Non pronte ad ascoltare appelli, come quello lanciato da Susanna Camusso, con l’invito ad assumere lo slogan opposto “non più disposte a tutto”. Incapaci di rivolta.
Come andrà a finire? Non sono qui per invocare la massima pena, se assodate le sue colpe, per l’utilizzatore finale, certo poco adatto a governare un Paese. Vorrei però che in quel processo non si dimenticassero Ruby e le sue tante sorelle. Vorrei che non venissero solo chiamate a una sorta di vendetta. Vorrei che alla fine il verdetto, qualunque verdetto, comprendesse un risarcimento. Restituisse anche a loro se non la dignità perduta almeno una possibilità di riscatto.
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