Ho guidato per ore, respirando vento del deserto e un caldo odore dolciastro di fiori guasti. L’autostrada era vuota, nel buio ho visto l’insegna brillare da lontano. Ho lasciato la macchina nel piazzale, guardandomi intorno: un posto come tanti, ma non è che dovessi farci chissà cosa. Per quel che mi riguardava, una notte era persino troppo.
L’entrata era deserta, ma alla porta era legato un campanello che non smetteva di tintinnare. L’ho fermato con la mano, e mi sono maledetto per questo: quando mi sono guardato attorno, lei era immobile sulle scale e mi osservava da non so quanto tempo. Colto alla sprovvista, e non dovevo. Non me l’aspettavo lì, non me l’aspettavo così.
Carne da perdizione chiusa in un castigato abito bianco da decine di bottoncini, tutti allacciati fino al collo. Un pallore latteo appena macchiato di rosa sulle labbra, capelli scuri raccolti. Perfidamente serafica.
Ho chiesto una camera, avevo già pronti i documenti falsi (erano perfetti, inutile dirlo, non avevo paura di essere riconosciuto), ma li ha lasciati sul banco, senza neanche toccarli. Si è girata per cercare la chiave; anche sotto quella clausura di stoffa intuivo la rotondità dei fianchi, e ho avuto l’impressione che mi vedesse spiarla, che sapesse. Mi ha piantato per l’eternità di pochi secondi gli occhi addosso, li sentivo bruciare, trasparenti come fiammelle del gas. Ma ho sostenuto lo sguardo: in fin dei conti, io ero nel giusto e consapevole della mia missione.
Mentre la fissavo, ho tentato di immaginarla scarmigliata, discinta. Posseduta. Ma mi sono controllato, non volevo che lei potesse in qualche modo carpire il motivo che mi aveva portato da lei, come un giovane lupo liberato nell’ovile. Le testimonianze, benché leggermente confuse, erano state presentate a chi di dovere ed io incaricato del rito, nonostante la mia esperienza fosse modesta; era un onore di cui dovevo esser degno.
Mi ha fatto strada, voce e occhi bassi, la nuca sottile nuda (un punto pulsante e corrotto sotto la trasparenza della pelle) attraeva il mio sguardo, mi pareva di veder scorrere in quei sentieri blu di sangue appena sotto l’epidermide il male che la impregnava, batteva, fremeva, quel collo sottile mi narrava, piegato, di celestiali tormenti, di sottomissioni e vittorie senza lotta, di richieste soddisfatte. Avrei voluto segnarmi per scacciare i pensieri lascivi, ma si è fermata puntandomi ancora gli occhi addosso. Poi ha aperto una porta su mura impudicamente svestite di ogni immagine sacra, ed è scivolata via salutandomi, occhi e voce bassi, falsamente timorosa.
Nella stanza è rimasto l’afrore tenue del suo sudore aleggiante con i fantasmi che la visione della pelle nuda aveva evocato; anche dopo aver sbarrato la porta, mi sembrava di vederla lì: ero certo che questo facesse parte del suo potere, segno di un maleficio sottile, lento e impercettibile come un vapore venefico.
La testa infatti mi girava leggermente, ero provato dal lungo digiuno; ho slacciato il colletto e baciato il crocifisso prima di allacciarlo, ma un’ansia densa continuava ad opprimermi il petto. Mentre preparavo l’aspersorio d’argento e la fiala dell’acqua benedetta, ho ripetuto a voce bassa i versetti del libro di Enoch che parlano della nascita di quelle come lei.
…quando i figli degli uomini si furono moltiplicati, allora nacquero figlie eleganti e belle. E quando gli angeli, figli del cielo, le ebbero viste, ne furono presi; e dissero gli uni agli altri: scegliamoci dunque mogli della razza degli uomini e facciamole concepire. E scelsero ognuno una donna, si avvicinarono e si congiunsero; e insegnarono loro la stregoneria, gli incantesimi e le proprietà delle radici e degli alberi.
Come ogni volta che pensavo al contenuto dei libri che dei folli hanno dichiarato apocrifi, ma pieni di verità ed insegnamenti, mi sono chiesto come avessero potuto gli angeli scegliere tra la luce senza principio né fine e la carne deteriorabile delle figlie degli uomini, tra il Bene eterno ed il male contingente, quando tutto si riduce a peccato sensuale, amplesso transitorio e breve godimento. Un incastro di corpi sudati, bramosi, l’ottundimento fugace della ragione fino all’irrefrenabile brivido… ma non potevo pensare a questo, non dovevo. Non dovevo.
La testa mi scoppiava di un fragore galoppante mentre immagini oscene si intrecciavano dietro i miei occhi, una fila di bottoni come un peccaminoso rosario da sgranare tra le dita – non dovevo, non devo pensare a – l’odore ubriacante di fiori e pelle calda e bianca come cera fusa, – non respiro più – la sottile nuca pulsante, nuda, nuda e lei sul letto – il suo profumo nell’aria e io dentro – lei geme sotto i colpi assestati da un essere alato, angelo, demone. Uomo.
Prete.
L’ultima cosa che ricordo è che ho aperto la porta: sembrava aspettare me, immobile vicino alle scale, e rideva. Sapeva di aver vinto, non si può uccidere la Bestia. Non ho pensato alla disfatta, al biasimo dei prelati, non ho pensato ad altro che alla salvezza perduta: sono fuggito senza voltarmi, inseguito da imposte che sbattevano in quell’aria insana, voci sbattenti urlanti, vai, corri, vai…