In quanto ad originalità, noi ostunesi non abbiamo da invidiare nessuno, e possiamo fregiarci di un segnale di riconoscimento uditivo, oramai sconosciuto ai più: il fischio di Pacchiarone de Tata.
Riconoscere un membro appartenente al proprio gruppo di appartenenza, alla propria comunità, è sempre stata un’esigenza pressante, tanto più quando la compagine in oggetto è ostracizzata o, ancora, tiene a mantenersi il più possibile nascosta agli occhi dei “non adepti”.
O, ancora, i tatuaggi delle gang americane, della Yakuza giapponese, o della mafia russa, nella quale sono utilizzati per indicare il “grado” criminale di ciascun membro.
In quanto ad originalità, però, noi ostunesi non abbiamo da invidiare nessuno, e possiamo fregiarci di un segnale di riconoscimento uditivo, oramai sconosciuto ai più: il fischio di Pacchiarone de Tata.
Pacchiarone de Tata, all’anagrafe Pasquale Saponaro, era, in pratica, il pazzo di paese, ed ha “operato”, in quanto tale, dagli anni’20 agli anni ’50 del secolo scorso, per la gioia e il diletto dei giovani del luogo, i quali erano soliti canzonarlo, non appena avevano il piacere di incrociarlo (e questo avveniva spesso, essendo il nostro un gran frequentatore della piazza principale del paese) con la seguente filastrocca:
E Pacchiarone de Tata
Rosina ve alla scanzàta.
Demeneca, ce Ddie vò
L’im a ffa li scarpe nove.
(Traduzione per i non ostunesi: arriva Pacchiarone di Tata, ovvero “lo scemo di papà”, e Rosina cammina scalza. Domenica, se Dio vuole, le faremo le scarpe nuove).
Sull’identità di Rosina esistono due teorie: quella che la identifica con la sorella, vittima del “dispetto” di Pasquale, e quella che la vuole come la donna di cui si era invaghito, alla quale dimostrava le proprie attenzioni in questo singolare modo.
Per ritrovarsi, bastava intonare il famoso fischio, attendendo lo stesso in risposta, in Piazza dei Cinquecento, a Roma, dove vi era un bar, frequentato abitualmente da ostunesi, a cui, nel momento del bisogno, ci si poteva tranquillamente rivolgere (solidarietà meridionale); nei cinema, a Bologna; in Spagna, durante la guerra civile, dove un giovane militare ebbe l’ultima consolazione di morire tra le braccia di un compaesano; su Corso Buenos Aires, a Milano; e, ancora, altre fonti citano la stazione di Trieste, al rientro delle nostre truppe dalla disastrosa spedizione di Russia, nella II guerra mondiale.
Altro che i tatuaggi!
Peccato che questa, come tante altre storie e tradizioni, di cui i nostri borghi sono sicuramente ricchi, stia finendo, lentamente, nel dimenticatoio!