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È un po’ questa la tesi portata avanti da Kubrick in uno dei film più sconvolgenti che la storia del cinema ricordi: stiamo parlando di Arancia meccanica. In questo film visionario e profetico, dissacratorio e politicamente scorretto ci stupiamo nel ritrovare intatti, dopo più di quarant’anni, tutti i temi e le questioni che attanagliano i nostri tempi, ma con una differenza sostanziale: ciò che all’epoca del film era soltanto preconizzato, con un senso deformante del grottesco e un’ironia velenosa, ora si sta puntualmente avverando. In un’epoca che più di ogni altra ha basato la sua propria identità sul ripudio di ogni violenza, sulla volontà concorde di evitare ogni ragione di conflitto e di concludere comuni accordi per la pace universale, la violenza è rimasta alla base, e costituisce lo strumento principale di oppressione e di governo. Certo, in tutto questo tempo la violenza si è trasformata; ha cambiato pelle, ha reso un po’ più consone le sue maniere. È stata come addomesticata, e le sue punte estreme sono state talmente gonfiate da sembrare inarrivabili per delle persone normali. Sto parlando della gestione dei media, e più precisamente del fossato che viene scavato tra la normalità e la violenza. L’attenzione morbosa ad ogni minimo dettaglio di un delitto; la sua spettacolarizzazione, la diffusione delle immagini dell’assassino e della vittima, la costruzione di una vera e propria fiction: tutto questo rappresenta un tentativo grossolano ma evidente di coprire la violenza, allontanarla in apparenza dalle nostre vite. La violenza è presentata cioè come un fenomeno strano, un’eccezione immediatamente isolata e catturata dagli sguardi sempre attenti dei cronisti; essa è qualcosa di fortemente deviato ed è senz’altro innaturale, disorganico, saltuario. Noi stessi ce ne sentiamo lontani, ben sicuri nelle nostre proprietà e nei nostri letti, appagati della grande distanza che ci separa da un’assurda anomalia. Al di là delle punte più estreme, però, messe bene in vista e circondate di attenzioni esagerate, esiste un corpo ben più grande, sotterraneo, i cui tentacoli si espandono ogni giorno senza che noi ce ne avvediamo. E così, nell’eccezione è da vedere qualcos’altro, qualcosa che invece si vuole nascondere; l’eccezione in cui è tenuta la violenza è la conferma della sua esistenza.
Chi non ricorda il finale del film? La violenza di Alex, il protagonista, era stata ‘curata’ con la violenza. La macchina politica se ne era impossessata, e l’aveva usata per i propri fini di propaganda e di consenso elettorale. La violenza era il punto nodale dell’intero mandato: bisognava non certo annullarla ma incanalarla, costruirle attorno un argine robusto che convincesse gli elettori della bontà effettiva dell’azione del governo, che era riuscito in qualche modo ad assorbire e riciclare quell’istinto negativo e distruttore. In realtà la violenza è pur sempre violenza: la si trova fra i teppisti come nelle istituzioni, nelle alte sfere pubbliche e nelle forze di polizia; la si trova per le strade e nei palazzi, nei condomini e nelle case dei ricchi. Se ne servono i partiti oppositori e le fazioni cosiddette ‘di sinistra’; i censori e tutti i falsi moralisti; le potenti multinazionali, le banche, i giornali, persino alcuni predicatori di pace. La violenza fa comodo a tutti, e a nessuno interessa davvero schiacciarla. Alex non era affatto guarito; e non poteva di certo guarire, in un mondo così. Pertanto, lui e il ministro degli interni raggiungono un proficuo accordo: il ‘drugo’ si dichiarerà completamente guarito, e in compenso il governo si prenderà cura di lui, oberandolo di favoritismi e procurandogli una buona posizione in società. Com’era successo a numerosi nazisti, quando fuggiti dalla Germania erano stati riabilitati dagli Stati che li avevano ospitati e da lì reimpiegati in funzione prevalentemente anticomunista, lo stesso accade anche per Alex: ancora una volta, quindi, la violenza ha fruttato.
La violenza spesso c’è, ma non si vede. È questo l’indirizzo del nuovo millennio, la strada verso cui ci stiamo dirigendo. Perché se è sempre più facile parlare, farsi sentire, affermare le proprie ragioni – siano vere o presunte -, è anche più facile fraintendere, dissimulare, fare finta di capire. La violenza è distaccata dal concetto di violenza. Ciò che si crede violenza oramai non lo è più, o meglio ancora è soltanto una lente distorta che ingrandisce ciò che poi così grande non è. La violenza reale è un’altra cosa. La coercizione, il ricatto a cui sottostiamo ogni giorno ci hanno abituato a considerare la via attuale come l’unica via percorribile; hanno reso necessario un qualche cosa di arbitrario, passeggero; ci hanno attratto verso grandi superfici, perché ignorassimo cosa si muove nel fondo. Mentre stiamo ben attenti a condannare la violenza, la violenza la subiamo e la facciamo, siamo complici di questa violenza. L’intero sistema si regge sulla violenza, e la usa per difendersi, per depistarci, molto spesso per offenderci. Solo che noi non ce ne accorgiamo, e continuiamo a sentirci appagati e protetti grazie ai ‘riti’ messi in atto dal sistema, vere danze della pioggia che scongiurano – apparentemente – ciò che invece è necessario conservare. In conclusione: non è vero che la violenza sia stata estirpata dalla nostra civiltà, né tantomeno si desidera estirparla. Come l’alcol ai tempi del proibizionismo, nessuno la compra ma in realtà se ne servono tutti. Però guai che la cosa si sappia! Non appena la voce si sparge, ecco arriva una retata, un arresto, una cattura preventiva, e tutto tace un’altra volta. Per fortuna! Così anche stanotte potremo godere di sonni tranquilli.
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