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Il ritorno di un re

Creato il 09 luglio 2015 da Libereditor

Si ritiene comunemente che la fondazione del moderno Stato dell’Afghanistan, nel 1747, debba essere attribuita al nonno di Shah Shuja, Ahmad Shah Abdali. La sua famiglia, originaria di Multan nel Punjab, era per antica tradizione al servizio dei Moghul. Non era dunque del tutto fuori luogo che il suo potere gli derivasse in parte dall’e-norme forziere di gemme moghul che il razziatore persiano Nadir Shah aveva saccheggiato dal Forte Rosso di Delhi sessant’anni prima; Ahmad Shah se ne impossessò un’ora dopo l’assassinio di Nadir Shah.
Avendo messo quella fortuna al servizio della sua cavalleria, Ahmad Shah non perse mai neppure una battaglia, ma alla fine fu sconfitto da un nemico più implacabile di qualsiasi esercito. La sua faccia fu divorata da quella che le fonti afghane chiamano “un’ulcera cancrenosa” – forse lebbra, o un qualche tipo di tumore. All’apice del potere, quando, dopo otto spedizioni successive nelle pianure dell’India settentrionale, riuscì finalmente a schiacciare l’intera cavalleria dei maratha nella battaglia di Panipat del 1761, la malattia gli aveva già consumato il naso, e usava una protesi tempestata di diamanti. Mentre il suo esercito cresceva fino a diventare un’orda di centoventimila soldati e il suo impero si espandeva, il tumore faceva altrettanto, devastandogli il cervello, estendendosi al petto e alla gola, inabilitandogli le membra. Andò in cerca di cure nei santuari sufi, ma in nessun luogo trovò la guarigione cui anelava. Nel 1772, disperando di ristabilirsi, si mise a letto, e, nelle parole di uno storico afghano, “le foglie e i frutti della sua palma da dattero caddero al suolo, ed egli tornò lì donde era venuto”.

IRDRMalgrado la sua lunga storia, l’Afghanistan è stato solo per periodi molto brevi un’unità politica o amministrativa. Spesso è stato solo una terra di mezzo. Una contesa e frastagliata distesa di montagne, deserti e pianure alluvionali.
In altri tempi le sue province sono state belligeranti periferie di grandi rivali in guerra tra loro. Solo poche volte le sue diverse parti si sono riunite insieme come una specie di stato unitario. “Tutto aveva sempre cospirato contro la nascita di un tale Stato, a partire dalla geografia e dalla topografia della regione, e in particolar modo l’enorme scheletro roccioso dell’Hindu Kush, con la nera breccia delle sue chine aspre e speriate che si staglia contro il bianco delle cime innevate scolpite nel ghiaccio, dividendo in due il paese come le costole dì un’immensa gabbia toracica di pietra.”

Il ritorno di un re è un libro-viaggio dove la bellezza è a portata di mano, pronta ad offrirsi a chi la chiede e in cui le porte sono immense, intarsiate di pietre preziose, i castelli sono vasti come città, i padiglioni d’oro e d’argento, la ghiaia è di crisoliti, perle e giacinti.
Un viaggio-fiume in cui gli uomini sono come dei bambini, che assistono ad uno spettacolo di marionette. Un cammino-peregrinazione straniante che Dalrymple ci racconta in modo unico.

William Dalrymple, Il ritorno di un re, traduzione di Svevo D’Onofrio, L’oceano delle storie, Adelphi 2015.


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