Un quarto della popolazione mondiale è musulmana – 2 miliardi circa di individui – ma solo l’1% delle attività finanziarie mondiali è conforme alla Sharia’a. La finanza islamica, a livello globale, cresce del 50% più veloce della finanza tradizionale, come sottolinea il premier inglese David Cameron, ma anche in Italia ci sono i primi indizi.
Si è tenuta a Londra, dal 29 al 31 ottobre 2013, la nona edizione del “World Islamic Economic Forum”, la più importante conferenza annuale a livello globale sulla finanza islamica, per la prima volta in una piazza finanziaria al di fuori del “mondo mussulmano”.
Fortemente voluto dal premier David Cameron, questo evento ha visto la partecipazione di 1.800 persone provenienti da 115 Paesi e un certo numero di leaders mondiali, tra cui il re Abdullah II di Giordania e il sultano del Brunei Hassanal Bolkiah.
Mire britanniche
Lo stesso primo ministro britannico, intervenendo al forum, ha espresso il desiderio che Londra possa diventare, al pari di Dubai e Kuala Lumpur, una delle più grandi piazze finanziarie islamiche di tutto il mondo, e ha annunciato, nella stessa occasione, che la Gran Bretagna sarà la prima nazione occidentale a emettere sukuk sovrani (erroneamente perché nel 2004 in Germania è stato emesso il primo Sukuk europeo dal valore di 100 milioni di euro, su iniziativa del Land della Sassonia-Anhalt) ossia “bond islamici” conformi alla Sharia’a, la legge religiosa islamica, che non permette il carico o il pagamento di interessi; ma questi strumenti1, offrono agli investitori profitti dalle attività.
Inoltre, contestualmente, la Borsa di Londra lancerà un indice per identificare le opportunità di investimento conforme ai principi islamici, che mirerà a capitalizzare la forte crescita del settore. Il previsto “Islamic Market Index”, quindi, identificherà le aziende che soddisfano i principi di investimento tradizionali islamici e aiuterà Londra a consolidare la sua posizione e a diventare il più grande centro per la finanza islamica fuori del mondo islamico. Inoltre, la Gran Bretagna ha già rimosso la doppia imposizione sui mutui islamici e ha esteso sgravi fiscali sui mutui a persone fisiche e giuridiche. Già il 2011 è stato un anno prevalentemente orientato alla ricapitalizzazione e al riordinamento strategico del settore finanziario islamico.
“Quando la finanza islamica è in crescita al 50 % più veloce del settore bancario tradizionale e quando gli investimenti islamici globali sono destinati a crescere a 1,3 trilioni di sterline (1500 mld. €) entro il 20142 dobbiamo puntare ad assicurarci che, una grande proporzione di quel nuovo investimento, sarà fatto qui in Gran Bretagna”, ha detto David Cameron al forum. Anche il cancelliere dello scacchiere britannico, George Osbourne, ha scritto, in un editoriale del “Financial Times” pubblicato lunedì 28 ottobre, che è giunto il momento di “cementare la reputazione della Gran Bretagna” nel mondo islamico3.
Una questione internazionale
Un quarto della popolazione mondiale è musulmana – 2 miliardi circa di individui – ma solo l’1% delle attività finanziarie mondiali, sono conformi alla Sharia’a. In tutto il Medio Oriente e Nord Africa, meno del 20% degli adulti hanno un deposito formale del credito.
La finanza islamica si basa sul pilastro concettuale coranico che il denaro non genera da sé altro denaro, esso non ha alcun valore intrinseco e deve essere utilizzato solo come una misura della pena, precludendo il coinvolgimento di investimenti speculativi (principio di Maisir) o l’adozione e la ricezione di interesse (principio di Ribā). Pertanto, gli investimenti Shari’a compliant (conformi alla Shari’a), sono invece strutturati sullo scambio della proprietà dei beni o di servizi tangibili.
L’emissione del sukuk “britannico” nel 2014 che, come preannunciato dal primo ministro, avrà valore di 200 milioni di sterline (circa 236 mil. €), è sicuramente considerata una piccola emissione ed è probabilmente da interpretarsi come una mossa politica, segnalando agli investitori che la Gran Bretagna vuole un pezzo del mercato finanziario islamico, dato che, negli ultimi 5 anni, la Borsa di Londra ha ospitato annunci di sukuk dal valore di oltre 34 miliardi di dollari (circa 25 mld. €), come riporta un comunicato dell’ufficio di gabinetto del governo britannico.
Circa il 60% dei sukuk al mondo è emesso dalla Malesia, secondo il Malaysia International Islamic Financial Centre. La legge coranica proibisce il prestito a interesse (Ribā), oltre all’investimento in bevande alcoliche, tabacco, carni di maiale, pornografia e gioco d’azzardo, ragione per cui, a differenza dei bond tradizionali, i sukuk devono corrispondere a un progetto ben determinato, generalmente di natura infrastrutturale o immobiliare, e rappresentano una quota dei profitti; quindi i sukuk sarebbero più propriamente titoli, denominati in materia finanziaria tradizionale asset-backed, ossia obbligazioni la cui emissione ha come fine la realizzazione di attività reali sottostanti.
Tuttavia, Londra è già il centro trainante della finanza islamica con più di venti istituti di credito cui sono state concesse le “Islamic windows” (uffici e sportelli ad hoc)4 ossia la possibilità di creare conti correnti speciali che utilizzano la compartecipazione agli utili al posto della garanzia sul valore nominale del deposito attraverso i tassi di interesse, vietati dalla Shari’a.
La stretta del credito, in questi ultimi anni, ha giocato a favore della finanza islamica, resa sempre più attraente dai suoi principi e dalle sue regole, ancorate a un’etica in virtù di rigorosi precetti morali, che escludono quei fenomeni speculativi che sono stati in parte causa della crisi economica mondiale. In Europa non solo l’Inghilterra, anche Francia e Germania hanno cominciato ad aprirsi, recentemente, alla finanza islamica. In particolare in Francia (dove vivono 6 milioni di musulmani, con un potenziale di mercato retail di circa 1,5 milioni di clienti), a partire da giugno 2011 la Chaabi bank ha cominciato a offrire conti deposito per clienti, arrivando a 500 nuovi depositi registrati ogni mese e a un tasso di acquisizione in continua crescita.
Una leva per l’economia dell’Italia
Il predetto divario, tra finanza tradizionale e finanza islamica, rappresenta una grande opportunità economica per il Regno Unito, ma anche per l’Italia. Per il nostro Paese dovrebbe risultare un obiettivo da raggiungere quello dell’integrazione economica islamica, in considerazione degli storici rapporti con i popoli arabi che fin dall’antichità sono stati uniti da un sottile filo rosso che arriva sino ai nostri giorni, sussumibile dall’interesse che gli investitori internazionali, provenienti dalle aree a sud del bacino del Mediterraneo, mostrano verso il Belpaese.
La popolazione islamica residente in Italia costituisce il 24,4% della presenza straniera e l‘1,4% della popolazione italiana, pertanto non dovrebbe accadere che un musulmano in Italia, a differenza degli altri paesi, non debba sentirsi in grado di avviare un’impresa perché non può ottenere un prestito di start-up semplicemente a causa della sua fede (o l’accensione di un comune mutuo per l’acquisto di una casa). In uno Stato di diritto, ciò non dovrebbe accadere finanche per responsabilità sociale pubblica e per giustizia sociale.
Questo segmento risulta agli albori, anche se si stanno moltiplicando i segnali di attenzione e interesse da parte di operatori del settore finanziario per favorire forme di integrazione economica. Attualmente, per l’investitore italiano è disponibile un solo fondo “Shari’a compliant” (l’Az multi asset global sukuk), lanciato recentemente sul mercato italiano da Azimut Investments, che investe in titoli obbligazionari sukuk. Inoltre, l’AIAF, sigla italiana degli analisti finanziari, recentemente, ha messo a punto un indice islamico della Borsa di Milano “Potremmo proprio chiamarlo Ftse islamic italian index”, afferma Enrico Giustiniani, analista di Banca Finnat e responsabile del progetto per conto dell’associazione, “si tratta di un paniere di società quotate che rispondono ai requisiti richiesti”. Insomma, un basket, per ora solo virtuale ma che ambisce ad avere un riscontro pratico5.
Lo stesso Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, nell’aprile 2013, in occasione del quarto forum della finanza islamica, tenutosi a Roma, diceva: “L’opportunità di attrarre capitali stranieri e l’intensità di legami commerciali e finanziari con la sponda sud del Mediterraneo rende sempre più importante, per il nostro paese e il suo sistema finanziario, essere preparato alla conoscenza e agli strumenti operativi per interagire con quei sistemi che obbediscono ai principi della finanza islamica”6. Esistono, nondimeno, tre fattori che limitano lo sviluppo di questo segmento oggi in Italia: 1. la struttura dell’Eurosistema che si basa su strumenti finanziari fondati sul tasso di interesse; 2. l’obbligo da parte delle banche europee di garantire uno schema di assicurazione dei depositi (non permesso dalla giurisprudenza islamica); 3. la responsabilità unica del consiglio di amministrazione della banca, in contrasto con lo “Shari’a board” che ha il compito di certificare che i prodotti finanziari siano conformi alla Shari’a.
Nel mondo si muovono fondi sovrani7 o fondi pensione, società di gestione del risparmio o finanziarie che fanno capo a ricchi emiri, proprietari di giacimenti petroliferi, che guardano costantemente l’occidente per cercare buone occasioni di investimento.
L’Italia non dovrebbe rifuggire da investimenti esteri, tirando su “ponti levatoi” e in modo particolare verso il mondo mussulmano, per l’enorme liquidità di denaro posseduta. La società italiana, ancora oggi, osservando gli investitori stranieri, che investono nelle nostre imprese, finanziando la nostra infrastruttura e l’industria del paese, riflette sulla seguente domanda “Non dovremmo fare qualcosa per fermarli?”. La risposta è evidentemente “No”, poiché si correrebbe il rischio di restare indietro e non si può perdere altro tempo, per ritrovare quel ciclo, in cui, noi italiani, saremo gli stessi investitori indigeni della cara Italia, oggi ferma e priva di forze sullo scacchiere economico globale.