L’apicoltura salentina tra passato, presente e nuove idee per il futuro
Una tradizione salentina, che al momento appare ancora sopita nelle pieghe del passato, è quella legata al rapporto che molte persone hanno intessuto con le api e la produzione del miele. E’ molto frequente incontrare nei giardini e nelle ville di raffinati proprietari, strane fioriere che altro non sono che elementi di antichi “apàri”, che fanno bella mostra di se insieme ad altri elementi architettonici o suppellettili reperiti saccheggiando insensatamente il paesaggio rurale.
Nelle nostre campagne, infatti, esistono diversi manufatti, misteriosi per i più, sia isolati che come elementi di più complessi agglomerati rurali, tra questi “pile” e “pilozze”, “furnieddri”, “pajare” e non di rado “apàri”. L’apàro, l’insieme degli alveari posizionanti nello stesso sito, era costituito nel Salento, come in altre parti, dalle così dette “arnie villiche”, loculi di tipo rustico utilizzati per l’allevamento delle api che, come risulta oramai da eminenti studi, era molto diffuso a queste latitudini. A seconda delle regioni le arnie villiche sono state costruite di forma e materiali diversi, tronchi cavi, cilindri di sughero, intreccio di fusti (ad esempio in Sicilia la tradizione, ben nota già allo scrittore georgico Columella, di costruirle con i fusti intrecciati di Ferula, ombrellifera spontanea nelle regioni meridionali italiane), ma anche di pietra come nel Salento. L’arnia villica salentina era costituita da blocchi di pietra a forma di parallelepipedo, cavi all’interno. Una delle due facce minori, solitamente quadrate, era chiusa ma presentava alcuni forellini che permettevano il passaggio delle api. Dall’altra parte, invece, l’arnia a veniva chiusa con una sorta di tappo (chiancareddha), anch’esso in pietra, e sigillata con della calce e terra. Durante il periodo della raccolta che la tradizione posiziona nella seconda metà del mese di luglio, l’apicoltore toglieva il tappo è tagliava i favi più ricchi di miele lasciando, alla regina ed alle sue fedelissime operaie, la maggior parte delle altre scorte (polline e miele in posizione più interna) e soprattutto i favi di covata, indispensabili a garantire il futuro della famiglia. Tutto ciò non poteva però avvenire senza uccidere un certo numero di laboriose operaie che, sia pur allontanate in massa dalle sapienti sbuffate di fumo dell’apicoltore, non potevano tutte sfuggire alla trappola del loro stesso miele; questo, infatti, sgorgando dalle celle tagliate dal soffitto dell’arnia finiva con appiccicare e portarsi dietro un pò di api che dovevano poi essere allontanate dai favi prima di sottoporli alla torchiatura. Il metodo tradizionale toglieva, inoltre, alle api grandi quantità di cera la cui ricostituzione porta ad un dispendio di energie sei volte superiore a quello necessario per produrre un pari quantitativo di miele.
Bisogna arrivare ai primi decenni del 1800 per cominciare a parlare di apicoltura razionale attraverso l’ideazione di arnie in legno e favi mobili e all’invenzione dello smielatore attraverso il quale il miele viene estratto per centrifugazione dai favi che, rimanendo intatti, possono essere riconsegnati alle api nella stagione successiva. L’arrivo di queste nuove tecniche, tuttavia, non toglie nulla al fascino dell’apicoltura e questo è forse un caso unico nell’allevamento animale.
Nel salento la tradizione delle arnie villiche ha resistito a lungo ed ha spesso convissuto con l’allevamento razionale; e, comunque, può ancora capitare di vedere in giro qualche vecchio apiaro, abbandonato dagli uomini ma non dalle api che imperterrite continuano ad entrare ed uscire dai piccoli fori delle ucche di pietra, almeno di quelle che hanno resistito alle razzie rurali di cui sopra.
Storici ed antropologi hanno dimostrato da tempo che la collaborazione tra l’uomo e l’ape ha radici antichissime, le prime testimonianze documentate di questo per così dire dolce sodalizio, si fanno risalire al tempo della civiltà egizia. Circa duemila anni fa, anche, Columella, dedicava un intero capitolo del suo trattato “L’arte dell’agricoltura” all’allevamento delle api. Nel salento, segni tangibili della presenza di questa pratica si attribuiscono già alla civiltà messapica.
La forte relazione che in passato ha legato il salento all’apicoltura è testimoniata da numerosi manufatti, toponimi, cognomi, modi di dire, racconti popolari ed addirittura stemmi di comuni o di importanti famiglie.
Pare oramai consolidato che paesi come Melendugno o Melissano, ascrivano l’origine del loro nome proprio in questa tradizione, tra l’altro vi è un testo della seconda metà del seicento, nel quale Gerolamo Marcianò scriveva, riferendosi proprio a Melendugno: “Questa città è chiamata così per il miele che v' è prodotto e che è migliore di quello dell'Attica, di Iblea e del Monte Imetto. Era celebrato dai vecchi perché il paese abbonda di timo, rosmarino ed altre piante odorifere. Il suo emblema è rappresentato da un "Pinus selvaticus" che porta sul suo tronco un favo di miele.”.
Studi decisamente più recenti, effettuati dal Professor Raffaele Monaco della cattedra di Entomologia dell'Università di Bari, hanno riscontrato che nei circondari del paese esistevano più di 90 apàri. Come pare fin troppo ovvio, non è assolutamente facile arguire l’ubicazione di questi che spesso erano dei gioiellini architettonici, incastonati in mirabili giardini. Sono stati effettuati dei tentativi che però, proprio nella zona di Melendugno sono andati sistematicamente frustrati.
Continuando il nostro viaggio, riscontriamo numerosissime contrade denominate: Laparu, ucche l’api, vigna l’api, apàru, mele e via di questo passo.
Il fatto paradossalmente più eclatante di questa intrisione della nostra cultura con il miele, è che non vi è traccia di memoria che riguardi l’argomento, in altri termini la cultura popolare non riconosce queste risultanze come parte della propria storia. I tanti che abitano nei paesi sopra nominati o che magari fanno Mele di cognome, non riconoscono assolutamente alcuna base etimologica tradizionale a questi nomi.
Come per tante altre cose legate alla cultura dei luoghi, chi ci vive dentro ne è spesso assolutamente inconsapevole.
Forse, però, la storia del Salento e dell’ape può tornare prepotentemente in auge, facendo rivedere tanti alveari più o meno hobbistici nelle nostre campagne; associando alle poche ma importanti realtà apistiche salentine una rete di piccoli apicoltori diffusi su tutto il territorio riporterebbe questa tradizione ad una nuova vitalità, buon miele nelle case e tante api sui fiori, con riconosciuto giovamento dei sistemi agrari e naturali presenti.
Un piccolo contributo a ciò sta venendo anche dall’azione svolta, in questi anni, dal Centro di Educazione Ambientale di Andrano e dall’Apiario didattico “Torre Lupo” a Marittima. Le due strutture, in perfetta sinergia, portano l’apicoltura nelle scuole, o meglio portano i ragazzi “a scuola dalle api”; qui, nella cornice di uno dei pezzi panoramici più belli della costa orientale, la lunga esperienza dell’apicoltore e gli strumenti didattici utilizzati sviluppano un’esperienza diretta di apicoltura con tutte le connessioni ecologiche che questo allevamento mette in atto. Il Centro, che estende la propria attività anche nei Comuni di Diso, Spongano e Santa Cesarea Terme, pone l’Apicoltura tra le sue priorità d’azione; ad anni alterni organizza il Corso di Apicoltura Biologica per adulti che ha già portato oltre cinquanta nuovi apicoltori nella nostra provincia
Del resto, la nuova visione multifunzionale ed eco-sostenibile dell’attività agricola, riporta all’attualità tutte quelle produzioni che ancorché di nicchia, concorrono a formare il reddito finale delle aziende. Non è difficile immaginare quanto possa essere utile l’apicoltura per riscoprire in chiave produttiva vecchi pascoli, macchie, garighe ma anche semplici incolti aridi che per decenni sono stati considerati con gergo tecnico le “tare” della superficie coltivabile aziendale. Questa attività, come segnalava già il già citato Marcianò nel diciassettesimo secolo, ha nel Salento una grande possibilità di sviluppo.
Anche qui, indagini in corso del laboratorio di Botanica Sistematica dell’Università di Lecce, stanno facendo il punto sulle reali potenzialità apistiche del Salento, riportando un elenco di flora mellifera che, già dalle prime ricerche, annovera oltre 250 specie con la definizione dei generi e degli ambienti più ricchi.
In ultimo, ma non meno importante, si vuole sottolineare l’importanza della riscoperta in chiave antropologica di questa attività umana, in quanto una visione più completa e dettagliata delle tradizioni e delle abitudini quotidiane di chi ci ha preceduto e, lasciatecelo dire, generato, in termini di comunità umana, ci può restituire una immagine più completa e precisa di chi siamo e da dove veniamo, ancorando saldamente le nostre radici in un patrimonio di cultura e di conoscenza vero, autentico, che spesso non ha nulla da invidiare a più rinomati territori e tradizioni.
Francesco Minonne
Francesco Vigneri