A me Christopher Hitchens, giornalista di battaglie e “turista della rivoluzione“, morto pochi giorni fa, era simpatico, per via di certe sfumature trozkiste nel suo come nel mio passato e di certe sue crociate contro poteri non troppo occulti, da Busch a Kissinger, dalla religione oppio dei popoli all’Agenzia per la Sicurezza nazionale Usa, da Mel Gibson a Madre Teresa, definita sprezzantemente il “rapace di Calcutta”. Che Hitchens dipinge come un’avida e spregiudicata affarista di Dio, poco meno di Don Verzè, se, dice lui, un ospedale non l’avrebbe mai costruito.
Ma ripeto lui era un geniaccio che aveva fatto della provocazione, dell’invettiva e della denuncia, peraltro documentata, un’arte. E lui stesso demonizzato: un ubriacone, un bigotto anticattolico, un complottista visionario. Hanno invece meno appeal gli Hitchins de noantri, quelli che sul web si dedicano all’esercizio antico ma sempre attuale della demolizione delle divinità in terra e vanno in solluchero nel sibilare e svelare nefandezze d’alto bordo.
Una pratica non del tutto inutile: dovremmo essere tutti un po’ più allenati a non nutrire una cieca ammirata subalternità da leader, titani, guerrieri, santi subito, poeti, navigatori? profeti.
La dissacrazione, se non il revisionismo di certi culti della personalità èaddirittura augurabile in certi casi e Madre Teresa francamente è uno di quelli. Non serviva Hitchens per mettere in guardia dall’acritica adorazione di gran parte del mondo occidentale, attribuibile ai suoi sensi di colpa coloniali, oltre che a un singolare ingegno per le pubbliche relazioni e la lobby condotta presso grandi influenti, non sempre pietosi, più che alle “opere” . Per non parlare delle esternazioni in materia di contraccezione, divorzio e aborto ma specialmente del suo incoraggiamento ad accettare la povertà e la miseria come segni di magnanimità divina e a chi tocca non si ingrugna.
Ma suona un bel po’ codarda e livorosa questa inclinazione planetaria a mettere in mutande Napoleone, denunciare inclinazioni sessuali di mezza Hollywood di conseguenza “immeritevole” dell’Oscar e dei Grammy, sottintendere lucri micragnosi e piccoli di “grandi”… purché ampiamente defunti. Non esiste strada virtuosa al potere, anche se con buona pace di Cacciari potremmo auspicare qualcosa di più nobile e istruttivo ed edificante da clero, santi e pastori di anime.
C’è da chiedersi se sia una fisiologica reazione postuma, una ribellione tardiva e a posteriori alla “consegna”, all’affidamento entusiasta, alla delega a un vicariato intellettuale, morale, civile. Come quando si prendono a picconate i busti di Ceausescu, si rovesciano le aquile imperiali, si bruciano i libri delle gesta di Kim il Sung, si sfasciano i fasci, in un rito collettivo mai abbastanza liberatorio, se serve solo a esonerare da responsabilità, rimettersi dai debiti, rimuovere la memoria, assolversi da colpe o complicità. Come se i destini del mondo prevedano solo governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, prepotenza e ubbidienza, forza e debolezza. E che solo il tabu della morte possa liberarci dai ruoli, da imperscrutabili codici, da biologie morali.
Atteggiamento rischioso di questi tempi: le disuguaglianze si sono accentuate, il capitalismo mostra la sua faccia più immateriale e impalpabile ma anche più immorale e prepotente, segnata dal passaggio da un ordine di valori ad un ordine di “strumenti” di mercato, dalla politica morale alla politica pratica, dall’istanza di beni generali all’ottenimento pragmatico del “male minore”. Ma anche desiderabile, se diventa preferibile in un mondo in cui regna il bellum omnium contra omnes, in una “società globale del rischio”, consegnare a qualcuno le proprie esistenze, incaricare altri della propria sorte e delle proprie scelte.
Quella che ci siamo abituati a chiamare l’antipolitica sembra essere l’indolente ammissione di inadeguatezza a stare dentro a questo “disordinato ritorno ad un caos di mali”: l’ineguaglianza; immodificabile per via politica dal momento che la politica stessa ha abdicato a favore del Mercato, che pone l’ingiustizia economica come giustizia fondativa del suo ordine; la democrazia svuotata ed indebolita e tanto estenuata che dai diritti si passa ai privilegi, che il principio della rappresentatività viene scalzato dall’assunzione di tecnocrazie e di agenzie che scelgono e stabiliscono per tutti. Tanto che chi sta in alto è legittimato a perseguire più la volontà di potenza alla Nietzsche che il patto sociale di Hobbes.
Così sembra consigliabile farsi imporre qualche pompiere piuttosto che spegnersi l’incendio tirando su l’acqua dal proprio pozzo, concedersi al sogno illusorio di un salvagente mezzo sgonfio piuttosto che costruirsi la zattera, lasciarsi persuadere che per il nostro bene non esistono diritti irrinunciabili mentre non può rinunciare a qualche privilegio.
È terribile la delega della salvezza in nome della necessità. Perché quella salvezza trascura la politica come dovrebbe essere. Ciò che nasce “tra gli uomini”, l’attivazione di legami che non si pongono al di sopra degli uomini, ma che si instaurano tra di loro. Una politica “dolce” che ritorni ad essere l’elemento fondativo di una comunità che ha nel momento della sua nascita, del suo venire alla luce, il senso stesso del perseguimento del bene non attraverso l’utilizzo della forza, ma attraverso la bellezza, la conoscenza, il ragionare insieme, la poesia, il sapere scambiato, uguali nelle differenze, forse felici.