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'Il Sapere per il Sapere': una malattia di oggi?

Creato il 14 aprile 2014 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
«Sapere aude!» esclama Kant nel suo scritto Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo (1784), considerato il manifesto del movimento culturale su cui si fondano i principi umani, sociali e politici del mondo occidentale. 'Il Sapere per il Sapere': una malattia di oggi?In realtà, il filosofo tedesco riprende un'esortazione già usata da Orazio nell'epistola I,2, presentandoci un Odisseo che preannuncia lo spirito affamato di sapere che Dante incontra nel canto XXVI dell'Inferno: se l'eroe non avesse avuto la mente esercitata al pensiero, se non avesse cercato avidamente la conoscenza, sarebbe caduto, come i suoi compagni, nelle trappole di Circe, finendo a vivere «da cane sudicio e scrofa fangosa» (Or. Ep. I, 2, v. 26); a nulla gli sarebbero servite le ricchezze, perché non esiste dono che eguagli la saggezza, la cui mancanza è considerata dal poeta dell'aura mediocritas come una vera malattia: E, dunque, se ci affrettiamo a combattere un morbo, bisogna anche avere il coraggio di liberarsi dei mali dell'animo, ed è a questo punto che Orazio scioglie il suo accorato invito: «Cerca la saggezza, ardisci, affrettati!» (vv. 40-41).
Eppure oggi l'ardore della conoscenza o anche solo la conoscenza in sé, che non si nutre necessariamente di particolari entusiasmi, sono considerati essi stessi le malattie: non si ha il coraggio di conoscere, si pensa che una nozione di cultura in più non sia utile, ma anzi, dannosa, come se il nostro cervello e la nostra vita potessero saturarsi di pensieri.
Una domanda è ricorrente fra gli studenti (ma non solo): «A cosa mi serve sapere questo?». Si cerca una motivazione pratica per la conoscenza, non si è appagati più nemmeno del fatto che apprendere una determinata informazione possa garantire un diploma. No, si vuole vedere un'utilità immediata, qualcosa di tangibile, visibile, palpabile e consumabile, non c'è l'idea che un'informazione in più possa produrre un arricchimento interiore (anche temporaneo), che possa contribuire a formare il pensiero critico, che dia colore alla personalità.'Il Sapere per il Sapere': una malattia di oggi?Nella pratica, poco o nulla di ciò che si impara a scuola ha una traduzione pratica: al di là del leggere, scrivere e far di conto, possiamo tranquillamente ammettere che, se non si intende percorrere uno specifico corso di studi o una determinata carriera professionale, non ci serve a nulla leggere la Divina Commedia, parafrasare d'Annunzio, descrivere un dipinto di Leonardo, interpretare il pensiero di Hegel, sapere in che anno sia iniziata la Rivoluzione francese o a quale distanza si collochi il Sole dalla Terra. Le nostre giornate scorrerebbero una dopo l'altra indipendentemente dal conoscere o meno questi argomenti.
Se a quelle stesse persone che sono convinte dell'inutilità del sapere (tutto o in parte) chiedessimo se, allora, non sia inutile anche ricordare risultati di partite di calcio o appassionarsi all'intera produzione musicale di un cantante, la risposta sarebbe diversissima. Come se sapere una cosa impedisse di conoscerne un'altra, come se esistessero nozioni dannose. Non mi aspetto, ovviamente, che tutti si dimostrino entusiasti per lo studio o che la maggior parte delle persone considerino Torquato Tasso più degno di memoria del loro divo preferito, ma non riesco nemmeno a capacitarmi del disprezzo che molti tendono a manifestare verso l'apprendimento e verso coloro che lo coltivano con passione o, semplicemente, con moderata attenzione.

'Il Sapere per il Sapere': una malattia di oggi?

A. Rodin, Il pensatore (1901)


'Sapere' ha, nella sua origine etimologica latina, un profondo legame con la sapidità, con il sapore: la conoscenza è considerato un condimento dell'essere umano, qualcosa contribuisce a definirne l'identità. Non significa che vi sia un discrimine fra chi dispone di maggiori o minori conoscenze o fra chi orienta il proprio sapere in una direzione anziché in un'altra. Semplicemente, trovo che disprezzare le possibilità di nutrire il nostro pensiero e di imparare (anche laddove un limite personale ci impedisca di riuscirci pienamente) significhi auto-denigrarsi, calpestare una risorsa che, come avevano già evidenziato gli illuministi, è in possesso di ogni essere umano ed è il fondamento stesso dell'uguaglianza e della dignità.
Sapere una cosa in più mi è sempre sembrato preferibile, anche in mancanza di un'utilità pratica, al sapere qualcosa in meno, ho sempre ritenuto 'Il Sapere per il Sapere' una straordinaria conquista e, a questo proposito, non posso che pensare alla citazione di Cioran con la quale Calvino chiude la sua premessa a Perché leggere i classici?:
«Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando unʹaria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere questʹaria prima di morire”»
E voi, care civette, cosa ne pensate?
C.M.

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