Il 14 dicembre scorso, nella splendida cornice del Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, a Torino, è stato eseguito il Second String Quartet (1983) di Morton Feldman (1926-1987), pezzo già famoso – o per meglio dire famigerato – per la sua monumentale durata: sei ore ininterrotte di musica. Artefici dell’eroica impresa sono stati i membri del Quartetto d’Archi di Torino, unica formazione italiana ad averlo in repertorio e che già lo aveva presentato a Bolzano, tre anni fa.
Essendo stato presente all’evento (insieme a una trentina di persone, tutte rimaste per l’intera durata del brano, dalle 17.30 alle 23.30), vorrei qui e ora, dopo un mesetto lasciato trascorrere come per inerzia, soffermarmi un poco su questa straordinaria esperienza d’ascolto e raccogliere alcune delle riflessioni che nel frattempo mi ha suscitato.
Sulla durata, ovviamente e innanzitutto: cosa possa mai significare suonare e ascoltare sei ore ininterrotte di musica, in particolare di quella musica. Già, perché a differenza di altri più o meno noti casi di brani lunghi o lunghissimi, disseminati nel corso del Novecento, dalle Vexations di Satie alle Dream Houses di LaMonte Young, quella di Feldman è una musica che esige la massima attenzione e concentrazione da parte sia dell’esecutore che dell’ascoltatore. Non è ‘musica d’ambiente’. È musica, potremmo dire, assoluta (“Suonatelo come La Morte e la Fanciulla”, rispose beffardo il compositore a una richiesta di chiarimento avanzata dal Kronos Quartet). Ma certo, se si distingue dagli esempi citati (quello di Satie una provocazione dadaista, quello di Young un’istallazione sonora), si distingue anche dal normale repertorio per quartetto d’archi, classico, romantico o moderno che sia. E si distingue, infine, anche dalle altre opere del compositore americano che, con esso, segnano la sua ultima fase di attività. Se infatti l’ultima produzione di Feldman è caratterizzata, per l’appunto, da una sconfinata dilatazione temporale dei brani rispetto ai venti minuti standard, tuttavia la loro durata media si assesta sull’ora e mezzo. Solo in un altro pezzo si sfiorano le tre ore di durata e in un altro ancora le quattro; ma sei ore appaiono proprio e in tutti i sensi ‘eccessive’, estranee a qualsiasi formato. Sembrano una mera provocazione, una sfida alla soglia d’attenzione dell’ascoltatore e soprattutto alle possibilità esecutive dell’interprete. Centoventiquattro pagine manoscritte, settemilaseicentoventinove battute (ripetizioni incluse) con pochi ritorni di sezioni perfettamente identiche: siamo ai limiti delle possibilità umane. Come evitare il rischio di dolori muscolari, di impellenze fisiologiche, di sdoppiamento del campo visivo o di altri deficit di lettura attiva e continua, per non dire della possibilità di mantenere vigile la capacità di contare mentalmente passaggi ritmici complessi, dei quali è disseminata la partitura? E ancora, da parte dell’ascoltatore, come fare per non distrarsi, per mantenere costante l’attenzione al dettaglio, alle minime sfumature, a quei sottili cambiamenti che costituiscono l’essenza stessa del brano e della poetica dell’ultimo Feldman? Qual è, insomma, l’approccio migliore a un pezzo così inconsueto, così ‘ingombrante’e inquietante?
Vano, oltretutto, sarebbe cercare nelle parole del suo autore qualche appiglio; se Feldman non è mai stato particolarmente prodigo di informazioni sui suoi metodi compositivi e sulle sue scelte poetiche, su questo pezzo ci sono pochissime testimonianze dirette, sparse qua e là nei suoi scritti, nelle interviste e nei seminari. Tra queste, trovo comunque particolarmente degna di attenzione la seguente, tratta dal seminario che tenne a Darmstadt il 26 luglio 1984, il giorno successivo alla prima esecuzione europea del quartetto:
L’idea che avevo in mente era quella di prendere qualcosa per poi alla fine disintegrarla, e così infine non ho fatto altro che presentare l’inizio secondo un percorso ordinario, e poi ho stabilito altre connessioni; cioè, per andare, mettiamo, da A a Z, faccio C – A – B – F, etc. Tutto è costruito in modo tale da poter sistemare qualsiasi cosa contro qualsiasi altra e far apparire normale il tutto, grazie alla perfezione di quel piccolo modulo; nel complesso la cosa è un incubo, è come un puzzle in cui ogni pezzo stia bene ovunque. Salvo che poi, quando hai finito, ti accorgi che non viene fuori nessuna immagine… Era questa l’idea: fare un puzzle, finirlo, e non ottenere alcuna immagine. Allora provi a farne un’altra versione e ancora non ottieni nessuna immagine… Alla fine ti convinci che non otterrai mai alcuna immagine.
Il divieto di ‘farsi immagini’ sembrerebbe, dunque, un primo indizio per comprendere quale sia la giusta predisposizione per affrontare una simile avventura dell’ascolto. Nessuna ‘immagine’ – e quindi, in’ultima analisi, nessuna forma – globale: la messa a fuoco, l’attenzione, deve essere posta unicamente sull’istante. Un’infinita concatenazione di istanti, ciascuno dei quali autonomo e privo di relazioni funzionali rispetto agli altri: ecco in che cosa consisterebbe questo pezzo. Una sfida, potremmo dire, all’impossibile, un’utopia che tenta di scardinare la nostra insopprimibile tendenza a farci, appunto, un’immagine di qualsiasi processo temporale, a raccogliere, a organizzare delle parti entro un tutto unitario. È precisamente questo carattere contraddittorio, interno alla poetica di Feldman, a generare inquietudine e smarrimento nell’ascoltatore. Non vi è, insomma, in questa – e in ogni altra – opera di Feldman, alcun motivo conduttore, alcuna gerarchia strutturale. La funzione dell’uso sistematico della ripetizione è dunque, qui, completamente diversa rispetto alla tradizione: essa non serve per evidenziare gli elementi strutturalmente più importanti, bensì per mitigare lo smarrimento attraverso la concentrazione. La ripetizione è qui una sorta di inner parameter che sospende, o per meglio dire rapprende, blocca ulteriormente il già fittizio flusso temporale (“Se voglio ottenere un blu profondo, non posso ottenerlo alla prima stesura della tinta: ho bisogno di molte stesure”, dirà ancora il compositore); eppure, se la sfida di Feldman, nelle ultime opere, era soprattutto quella di superare la forma sostituendola – tenendo sempre presente l’esempio di Rothko e degli altri pittori della colorfield painting come Newman e Reinhardt – con la proporzione e la ‘scala’, essa sfida non era intesa come negazione tout court della memoria, come esaltazione dell’oblio, ma come una ridefinizione delle sue funzioni: a ritornare non è più l’’idea principale’, il nucleo germinativo dell’organismo sonoro – soggetto, tema o pattern che sia – ma l’oggetto affettivo, la figura che mostra in sé e da sé la propria pregnanza, la propria perfezione, il proprio inesauribile potenziale espressivo, la propria – diciamolo, una volta per tutte e senza timore – bellezza.
Quello che in ultima istanza ci chiede Feldman è, allora, la condivisione di un’esperienza della bellezza, di una bellezza pura, ‘astratta’ e universale, che non sta, come in Cage, nell’oggetto e nel ‘mondo’, ma che coinvolge e chiama in causa il soggetto andando a toccare le sue corde più intime, a illuminare le sue strutture più profonde e ancestrali.