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Questa telefonata da Kabul rende la tristezza di queste ore ancora più profonda. Eppure, nei lunghi silenzi durante i quali io sento Mustafa respirare e lui sente me, si fa strada un pensiero, che forse è anche una bussola per uscire dalla confusione, dal disorientamento. Mustafa ha fotografato le conseguenze della guerra nel suo Paese, gli errori, le “sbavature”: lo ha fatto non per fomentare l'odio, il risentimento, la sete di vendetta. Ha messo al centro dei suoi scatti l'essere umano colto nel momento in cui il velo sottile che ricopre la realtà veniva sollevato. Lo ha fatto per salvaguardare la nostra capacità di giudicare il mondo, ma anche di provare compassione. Ha telefonato, in fondo, per dire questo: che forse non le vorremo più guardare, quelle fotografie, o guardandole non proveremo più nulla, perché gli assassini di Parigi vogliono proprio questo, costringerci alla chiusura, all'ignoranza dell'altro, alla sorte degli altri, asservire la nostra umanità alla rabbia.
È Mustafa a dirlo, improvvisamente: “E se non andasse così? Nel dolore c'è una forma di resistenza, contro chi si fa portatore e autore di violenza. E c'è, probabilmente, anche la capacità di condividerlo, il proprio con gli altri, e il dolore degli altri, la sofferenza degli altri con il proprio dolore e la propria sofferenza”. La telefonata termina qui. Mustafa, quando si girava insieme per l'Afghanistan, diceva “Stay human”, anche quando di umano, attorno a noi, rimaneva poco. La guerra consuma l'umanità di chi ci è dentro, non soltanto di chi la fa, ma anche di chi la subisce, la spegne. Ha chiamato per consegnare la sua posta nella bottiglia, perché vuole continuare a fare il giornalista e a scattare fotografie nella speranza che qualcuno le guardi. La mattanza di Parigi e la strategia dei predicatori del terrore hanno come obiettivo anche colpire la nostra libertà, incluse quella di espressione e di stampa. Un modo per difendere queste libertà è continuare a raccontare la vita delle persone prigioniere dentro quelle guerre che qualcuno vorrebbe portare nelle nostre città. Raccontare le vittime è un modo per restare umani, ma anche per capire.
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