Il senso dell’elefante (Guanda, 2012) è la storia di un padre e di un figlio, del loro legame che è il legame di tutti i padri con tutti i figli del mondo. «Gli elefanti si occupano del branco senza badare alla parentela», si legge a metà del romanzo. «Tutti per tutti», come una grande famiglia che non bada ai legami di sangue. Ed è proprio una famiglia allargata, il condominio di Milano dove Pietro ottiene il suo primo incarico di portinaio, dopo aver dismesso le vesti di parroco che aveva indossato per tutta una vita. L’avvocato Poppi, il ragazzo strambo Fernando, sua madre Paola, e la famiglia del dottor Martini, con Viola e la piccola Sara: un microcosmo che Pietro impara subito a conoscere, sospinto da una curiosità che insieme racchiude un istinto paterno, il desiderio di protezione, la volontà di ricostruire qualcosa che non è mai stato.
Così Pietro, che si dimostra da subito un buon portinaio, attento alle piante e affezionato alla sua vecchia bicicletta, ottiene l’affetto e la fiducia dei condòmini, che lo ripagano ciascuno a modo loro. Fernando, che il vecchio intrattiene con ombre a forma di pappagallo, gli regala i suoi gioielli, tra cui il basco che fu di suo padre; Paola gli dimostra attenzioni che non sono soltanto semplice riconoscenza; Poppi lo invita a condividere i suoi segreti, origliati attraverso un muro troppo sottile che lo proietta nel mondo dei Martini. Anche la famiglia del dottore accoglie il vecchio con affetto nel suo nido, fin quasi a mettersi a nudo come in un confessionale.
Non è più un prete, Pietro, ma il legame con quello che è stato il suo unico Padre non può svanire nel nulla, non può essere dimenticato dal tempo.
Anche per questo il portinaio accetta di seguire Luca Martini nelle sue sortite fuori dall’ospedale, in quelle “visite a domicilio” che mettono la morte nelle mani del dottore e che pongono fine a situazioni disperate, placate da un bicchiere di sedativo e una puntura. Non è più un prete, Pietro, ma un segno della croce non lo nega a nessuno, non lo nega ai figli degli altri che il dottore, suo figlio, accompagna dolcemente dall’altra parte. Eppure non trova la forza di svelarsi, di rivelare la sua identità, di raccontare la storia di quell’incontro con Celeste, la strega di Rimini, da cui Luca ebbe inizio, anche se, nel corso della storia, Pietro diventa molto più che un padre, con la discrezione e la sua presenza silenziosa, con l’amore per Sara e Fernando e per tutti i bambini in cura all’ospedale, con l’avvocato Poppi che piange ancora il suo Daniele, con Viola e l’ecografista Riccardo, che nascondono un segreto grande quasi quanto il suo.
Solo alla fine, dopo un viaggio “di famiglia” a Rimini, tutte le cose andranno al loro posto, secondo una direzione che Pietro contribuisce ad imprimere; tutto nel nome di un amore incondizionato verso il figlio, che lo porta a sacrificare se stesso e gli altri, a ricongiungersi per sempre con il suo unico Padre. In uno stile essenziale e vivido, Missiroli racconta una storia che pare prendere forma a poco a poco, crescere ed evolvere tra le mani; una scrittura che affila per bene ogni parola prima dell’affondo finale, che sopraggiunge come in un’imboscata e ti mozza il fiato. Colpisce soprattutto la persona di Pietro – è riduttivo parlare di “personaggio” –, un prete che nella vita è stato figlio e amante, orfano e padre. Imprevedibile, silenzioso, goffo nei movimenti quanto nel rapporto fisico con gli altri, eppure così acuto, affilato, per certi aspetti spietato.
“Intenso” è l’aggettivo giusto per descrivere Il senso dell’elefante, il suo mondo, Pietro e l’amore incondizionato che freme dentro ogni parola.
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