Il senso di una fine, Julian Barnes [Sì, certo, eravamo presuntuosi, se no a che serve essere giovani?]

Creato il 31 marzo 2014 da Frufru @frufru_90
Un libro piccolo (150 pagine) e un protagonista, Tony Webster, del tutto normale. Davvero, normalissimo. Se qualcuno mi chiedesse una sua caratteristica speciale alzerei le spalle e scuoterei la testa: non ne ha. Sì, al liceo si perdeva in discorsi filosofici, ma chi non lo ha fatto in fondo? Chi non si è mai trovato a discutere su chissà quali massimi sistemi, parlando a ruota libera, un po' a sensazione, con un po' di conoscenza e una certa dose di presunzione? Parafrasando un pensiero di Tony: a che serve essere giovani se non si è presuntuosi? Tony, a parte i dibattiti filosofici azzardati con i suoi amici, era un maschietto timido, dalle sue parti gli anni Sessanta ancora non erano arrivati, le ragazze non gli rivolgevano la parola e bastava che una non lo ignorasse per far nascere in lui un certo interesse. Insomma: Tony non era né il più intelligente del gruppo né il più figo. Era un giovanotto mediocre, discreto, nella media. Mediamente interessante, mediamente noioso. In compenso si era preso una bella cotta per una tipa tutt'altro che banale, una Veronica sopra le righe, egoista e acida, molto strana. Una che diceva a Tony che "non se la sentiva", nonostante gli anni 60 e la libertà sessuale di quegli anni. In compenso Tony aveva anche un migliore amico per niente nella media, Adrian, un genio indiscusso, uno dalla logica ferrea e dall'intelligenza davvero supersviluppata.
La storia racchiusa in queste poche pagine ruota soprattutto intorno a loro tre, specialmente intorno al tentativo da parte di Tony di dare un senso alla fine prematura del suo amico Adrian, morto suicida. Per anni, in realtà decenni, Tony ha pensato che il suicidio di Adrian fosse l'estremo gesto della sua logica ferrea, l'ennesima dimostrazione della sua coerenza rispetto alle conclusioni filosofiche verso cui lo conduceva il suo ragionamento inattaccabile.
Ma era davvero questo il senso della fine di Adrian? Davvero era qualcuno da ricordare con ammirazione per il coraggio delle proprie idee e teorie?
Imprevedibilmente Tony, decenni dopo la morte del suo amico, si troverà ancora impantanato in quelle domande, di nuovo alla ricerca di un senso che forse mai aveva immaginato fino a quel momento. Ormai ha sessant'anni, un matrimonio finito con una donna che continua a essergli amica, una figlia che sente di tanto in tanto, un nipote ancora piccolo. È un sessantenne normale, appunto. Fino al giorno in cui una lettera lo avvisa del testamento della madre di Veronica, che aveva conosciuto quarant'anni prima per un unico week end. Pare che gli abbia lasciato qualche centinaia di sterline e il diario di Adrian. Tony non capisce il perché di quel lascito, ma quel testamento inaspettato diventa l'occasione per tirare i fili della propria vita e ripercorrere il passato, ricordando la sua storia, quella parte di storia che aveva condiviso con Veronica e con l'amico suicida.
Che ne sapevo io della vita, io che ero sempre vissuto con tanta cautela? Che non avevo mai vinto né perso, ma avevo lasciato che la vita mi succedesse? Io che avevo avuto le ambizioni di tanti, ma che mi ero ben presto rassegnato a non vederle realizzate? Che avevo evitato il dolore e l’avevo chiamato attitudine alla sopravvivenza? Che avevo pagato conti e bollette, che ero rimasto in buoni rapporti con tutti il più a lungo possibile; io, per cui estasi e disperazione erano diventati da molto tempo giusto parole lette una volta nei libri? Uno i cui rimproveri a se stesso non lasciavano mai il segno?
Non sono un'amante dei libri brevi, perché spesso li trovo affrettati e superficiali, come se l'autore non avesse avuto voglia di approfondire un aspetto, come se avesse avuto fretta, a un certo punto, di chiudere. Anche in questo caso ho avuto la stessa impressione.
La parte iniziale del "romanzo" l'ho trovata davvero molto bella. Ho amato il modo del Tony sessantenne di ricordare gli anni liceali, ho amato le sue riflessioni sul tempo, sul ricordo, sulla storia, sul modo in cui si smette di essere giovani e si diventa adulti. Ho amato la maggior parte dei voli filosofici dei protagonisti. Con la (ri)comparsa di Veronica e l'affannosa ricerca di un'incomprensibile diario di Adrian però il mio piacere di lettura è calato, fino ad arrivare all'apice negativo proprio sul finale. Un finale che ho dovuto rileggere e rileggere per capire se lo avevo compreso bene. Un finale buttato lì così, con una manciata di frasi improvvise, alle quali non segue nessuna riflessione o domanda, a parte un senso del tutto nuovo e impensabile alla fine di Adrian.
All'improvviso mi sembra che una delle differenze tra la gioventù e la vecchiaia potrebbe essere questa: da giovani, ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso per gli altri.

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