Troppo buona per essere falsa: è l’idea con cui parecchie bufale scientifiche passano di manuale in manuale accademico, inquinando le menti di migliaia di studenti e passano al grande pubblico tramite articoli e riviste divulgativi. Questo è’ il soggetto di un capitolo di Geoffrey K. Pullum, nel suo libro The Great Eskimo Vocabulary Hoax and Other Irreverent Essays on the Study of Language, University of Chicago Press, 1991. Queste bufale, aggiungo io, hanno assunto il carattere di pandemia grazie (si fa per dire) al contributo dei social network.
La bufala sulla quantità di parole che gli eschimesi avrebbero per definire la neve era stata svelata per la prima volta da Laura Martin, del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Cleveland, che pubblicò le sue constatazioni su un numero della rivista American Anthropologist del 1986, ma come lei stessa riconosce, nessuno se la filò minimamente, neppure per contestarla. La verità è che le cosiddette lingue eschimesi, cioè le famiglie linguistiche imparentate inuit e yupik, parlate dalla Siberia alla Groenlandia, non hanno un gran numero di parole differenti per dire neve e nessuno studioso di quelle lingue lo ha mai detto. Il fatto è che la bufala vive di citazioni di centesima mano senza alcuna ricerca delle fonti primarie dell’affermazione e quindi di documentazione di questa affermazione, anche perché non esistono.
Pullum riprende l’argomento (con altrettanta scarsa reazione) e parte da dove la Martin aveva cominciato, dal linguista dilettante e genio dell’antropologia delle origini Benjamin Lee Whorf, il cui pezzo, apparso anche in seguito alla pubblicazione del 1940 in forma ridotta su Lingua Franca, come discorso inaugurale di questa rivista accademica, è piuttosto sciatto, rispetto a parti importanti e immortali della sua produzione, secondo Pullum. Vale la pena di far notare un fatto, come ricordano Martin e Pullum. Agli eschimesi vengono attribuite centinaia di parole diverse a seconda del tipo di neve, una meraviglia lessicografica invernale, la dimostrazione quintessenziale di come la mente primitiva categorizzi il mondo in modo così diverso dal nostro. Ma a questa stravaganza linguistica si associano impercettibilmente altri aspetti di ‘perversità polisintetica’, come sfregarsi i nasi, prestare la moglie agli stranieri, mangiare grasso di foca crudo, buttar fuori la nonna sul ghiaccio in pasto agli orsi polari. Come dice la Martin, ‘siamo disposti a credere di tutto a proposito di un gruppo così poco familiare e peculiare’, riferendosi ironicamente alle nostre tendenze razziste inconsce.
In realtà, più che degli eschimesi, Martin e Pullum si occupano di ‘una saga imbarazzante di sciatteria accademica e di avidità popolare per fatti esotici’ riguardanti altri popoli senza uno straccio di prova. E in effetti, la balla sulla neve eschimese è una specie di bufala che si è sviluppata accidentalmente all’interno della stessa comunità antropologica.
La fonte originale è l’introduzione di Franz Boas all’Handbook of North American Indians del 1911, dove dice, all’interno di una discussione non troppo elevata e non spiegata benissimo sui termini indipendenti rispetto a quelli derivati per le cose in lingue diverse, che come in inglese si usano radici separate per una varietà di forme d’acqua (liquido, lago, fiume, ruscello, pioggia, rugiada, onda, schiuma) che possono essersi formate per morfologia derivativa da una singola radice che significa ‘acqua’ in qualche altra lingua, così l’eschimese usa le radici apparentemente distinte aput, ‘neve sul terreno’, gana, ‘neve che cade’, piqsirpoq, nevischio sotto i 2 cm di deposito, e qimuqsuq ‘cumulo di neve creato da una bufera’, formate per morfologia derivativa da una singola radice che significa ‘acqua’. Boas vuole semplicemente dire che l’inglese esprime queste idee tramite espressioni che implicano la radice ‘neve’, mentre le cose potrebbero essere diverse, proprio come le parole per lago, fiume, ecc. avrebbero potuto essersi formate per derivazione o perifrasticamente dalla radice ‘acqua’. Ma con il seguito della storia, avverte Pullum, il mito della lessicografia eschimese, come il mostro xenoformo di Alien, sfugge al controllo.
Benjamin Lee Whorf, ingegnere chimico al servizio dei pompieri del Connecticut come ispettore alla prevenzione degli incendi e linguista dilettante, prese l’esempio di Boas e lo usò, in modo vago, nel suo articolo amatoriale ‘Science and linguistics’ del 1940 per la rivista promozionale Technology Review del MIT , di cui Whorf era alumnus, avendo preso la laurea in ingegneria chimica presso quella prestigiosa università. Così l’ingegnere alla prevenzione degli incendi scatenò un incendio tremendo e ancora adesso incontrollabile. Whorf in sostanza diceva che noi abbiamo la stessa parola per neve che cade, per terra, impaccata e dura come ghiaccio, che soffia con il vento eccetera, un fatto che per un eschimese sarebbe incomprensibile come termine onnicomprensivo. Lui direbbe neve che cade, molliccia ed acquosa, ecc. dato che si tratta di cose sensorialmente e operativamente diverse con cui si ha a che fare e quindi usa parole diverse per questi e altri tipi di neve. Come si vede è un’interpretazione di Whorf in base ai termini riportati da Boas, non uno studio di Whorf basato sulle lingue inuit e yupik.
L’articolo di Whorf, però, riscosse un enorme successo e venne pubblicato e ripubblicato, riproducendo mostri come la madre aliena per tutta l’astronave. In effetti, non solo il ragionamento sui termini eschimesi era falso, ma anche quello sulla lingua inglese, che infatti ha diversi termini a seconda dello stato della neve: snow quando è soffice e bianca, slush quando è parzialmente sciolta e fangosa, sleet quando cade già mezza sciolta, nevischio, e blizzard quando viene giù e picchia abbastanza duramente da rendere pericolosa la guida.
Comunque sia, man mano che l’articolo di Whorf passava da seconda a terza, a quarta mano, la storia diventava sempre più sciatta e fantasiosa: nel 1984, per esempio, Martin ricorda che, due anni dopo il suo articolo, alla presentazione del meeting dell’America Anthropological Association, il numero di parole eschimesi per ‘neve’ sale da quattro (Boas e Whorf) a nove, per salire a cento in un editoriale del New York Times e a duecento in una trasmissione meteorologica di una TV di Cleveland, tutte nello stesso anno! il New York Times, in America il giornale dal maggior prestigio, ritornò sull’argomento quattro anni dopo e tagliò del cinquanta per cento il numero delle parole, attestandosi su ‘circa quattro dozzine di parole per descrivere la neve e il ghiaccio’, nella sezione scientifica del giornale.
Come dice Pullum, a chi importa il vero numero delle parole, quando si ha una storia così stuzzicante? ma questa è anche una storia di come la favola delle parole eschimesi per definire la neve sia un esempio di come si debbano usare le fonti in modo attento, si debbano portare prove chiare e, soprattutto, si debba fare una continua valutazione degli assunti, per non cadere verticalmente di standard. Il successo della bufala eschimese, infatti, riflette tristemente Pullum, testimonia la caduta degli standard accademici e anche la tendenza più ampia, negli USA, verso modi fondamentalmente anti-intellettuali ‘gee-whiz’ (per Jesus!!, esclamazione attenuata), cioè miranti a meravigliare la plebe con effetti speciali e verso una crescente ignoranza del pensiero scientifico. In Italia è anche peggio, dato che siamo una comunità accademica di secondaria importanza.
Pullum conclude ricordando che, di fronte a due diverse citazioni della ‘neve eschimese’ in due convegni accademici, la prima volta cortesemente fece notare la bufala attirandosi sguardi irati, la seconda si limitò a mettersi le mani nei capelli per un buon minuto e poi uscire dalla sala. Non siate vili come me, scherza Pullum, ma alzatevi e dite: ‘il Dictionary of the West Greenlandic Eskimo Language di C. W. Schultz-Lorentzen (1927) fornisce solo due radici possibilmente rilevanti, qanik, neve in aria o fiocco di neve, e aput, neve per terra, e aggiungete che sareste interessato se chi ha fatto la citazione potesse aggiungere qualche altra parola. Questo non vi renderà di sicuro la persona più popolare in sala, ma avrete reso un servizio alla verità, alla responsabilità e ai buoni standard accademici’.