C’era una volta la commedia dell’arte. Un concetto, quello dell’incipit delle più belle favole e novelle, che racchiude in sé un forte senso di passato ma non d’estinzione, di qualcosa che non esiste più ma di cui permane il ricordo. Di questa ambivalenza sembra perfettamente cosciente Antonio Latella con il suo Il servitore di due padroni, un’opera da Goldoni più che di Goldoni. L’affermato regista napoletano smonta letteralmente il testo e l’opera del 1745 e ne fa una versione che mischia l’assurdo e il rispetto, tratti tipici della tradizione ed elementi di estremistica novità. Della celebre opera del Settecento mantiene i nomi dei personaggi (Brighella, Arlecchino, Pantalone, ecc.), grosso modo l’intreccio, i dialetti di alcune maschere (il bergamasco di Arlecchino e il veneziano di Pantalone), la struttura scenica a più porte. Rivoluziona la tradizione ambientando la vicenda sul piano di un hotel, in costumi contemporanei, con un Arlecchino la cui veste a toppe colorate è tornata bianca candida (come quelle dei primissimi zanni), scene di sesso etero e omosessuale. E basterebbe quest’ultimo appunto per gridare allo scandalo, se dimentichiamo che la componente erotica, come attesta la Raccolta Fossard, è stata parte integrante della fortuna della commedia dell’arte.
Ma in Latella ogni stravolgimento è fondato, niente è gratuito, niente è pura e glabra provocazione. Brighella in perfetto smoking si fa lettore, imbonitore, radio-telecronista delle note di scena e arbitro tra i personaggi come tra gli attori di un odierno match d’improvvisazione teatrale (ricordiamo che la commedia dell’arte era recitata “all’improvviso”). Arlecchino s’avventura in un’esegesi della (sua) maschera, le cui smorfie sono ridotte ad un evocativo fazzoletto bianco, e del celebre lazzo della mosca, riproposto tramite una vera e propria “lettura” scenica per una performance a regola d’arte. E Antonio Latella, cosciente di come il teatro si faccia storia e repertorio, non dimentica di citare l’Arlecchino di Marcello Moretti nella memorabile versione di Giorgio Strehler.
Come immersi in una lunga infrazione carnevalesca, nella quale all’ordinario semel in anno licet insanire, Il servitore di due padroni è uno spettacolo che affascina, diverte, ammalia, ipnotizza con sacrale e dissacrante rigore. Un’opera colta e stralunata che non lascia indifferenti, ampia riflessione sul teatro tra ieri e oggi, in continua dialettica con un passato che è linea di confine da superare e a cui guardare. Un passato rappresentato dal personaggio di Silvio, agghindato alla vecchia maniera con costume e riccioluta parrucca settecentesca. Lui, innamorato senza maschera (e ci tiene a ribadirlo!), impostato in voce e portamento, è lì di fianco agli altri, ma come una vecchia foto sbiadisce su un palco dove il “classico”, Goldoni, è una lunga ombra proiettata sul muro, proprio come quelle lanciate dalle sagome degli interpreti. Ma l’ombra, per quanto vuota e scura, non può andarsene, legata com’è alla realtà, alla fisicità di ciò che è esistito.