Il sesto giorno

Da Thefreak @TheFreak_ITA

I sogni sono sentieri che conducono alla conoscenza di noi stessi. La conoscenza di noi stessi è il sentiero che porta alla nostra realizzazione personale.

Sveglia, cappuccino, metro, ufficio, palestra, sashimi, letto. I giorni passavano lentamente e sempre uguali da qualche mese a questa parte. Non cambiava mai nulla. Non sentivo nulla. Non davo molto senso alle cose che facevo. Vivevo per inerzia. Ed era inutile leggere l’oroscopo della settimana sulla rivista patinata: “Ora che il sole è in posizione favorevole ti aspettano giorni emozionanti nel lavoro e nella vita privata”.

Maquandomai!?! I giorni non cambiavano mai. O forse ero io che non volevo che cambiassero.

Oggi però è diverso. Mi sono svegliato riposato. Dopo la doccia fredda mi sono preparato il cappuccino con la macchinetta. L’ho assaporato come non facevo da tempo. Prima la schiuma bianca mi ha pizzicato le labbra, poi il caffè caldo mi ha bruciato dolcemente il palato. Una sensazione piacevole.

Mi guardo allo specchio. Boxer. Calzini a quadri sub-rotula. Deodorante Intesa dappertutto.

Mi vesto. Sono soddisfatto del mio dress code quotidiano, stranamente vintage:

Giacca check blu a righe, pochette verde con stampa floreale nel taschino, camicia in cotone, jeans effetto used, occhiali con montatura di acetato trasparente e lenti azzurre, orologio in acciao con cinturino in coccodrillo, e Church’s iperclassiche ma scolorite e con suola a contrasto ai piedi. Sono i dettagli che fanno la differenza. E occorre essere coraggiosi anche nel vestirsi. Oggi mi sento molto dandy inglese. Molto Jude Law in Alfie. Molto figo.

Ogni giorno faccio lo stesso tragitto con la metropolitana. Stessa ora. Stesse fermate. Stesso vagone. A volte ci sono anche le stesse persone, nelle stesse postazioni, con gli stessi vestiti, che sembra un déjà vu. Quando non c’è confusione, è meraviglioso ascoltare i dialoghi dei passeggeri. All’inizio non lo fai volontariamente, poi, un pò per curiosità, un pò per perdita di tempo, il tuo padiglione si dilata e inizia a sentire due signore anziane che parlano del tempo:

«Ha visto che caldo fa? Non si respira…»

«Eh signora mia, non ci sono più le mezze stagioni.»

Un classico. Poi, davanti a me, due signori distinti, in giacca e cravatta, che sembrano quadri aziendali. Con l’auricolare all’orecchio destro e il kindle in mano:

«Aldo, secondo me adesso succederà la rivoluzione. Non se ne può più. Prima gli scandali, le escort, la corruzione, i favoritismi, le raccomandazioni, gli appalti truccati. E adesso le tasse…»

«Mah non lo so, comunque c’è un divario tra nord e sud impressionante. Secondo me, il federalismo lo approveranno prima o poi. Sicuro.»

Dietro di me invece, ci sono due ragazzine adolescenti, tredicenni, capelli raccolti a coda di cavallo, zaino di Hello Kitty, acne sparsa sul viso, concentrata maggiormente su mento e mascella, e occhiali da riposo:

«Jenny domani esce il nuovo album di Franco, quel bono di Amici. L’ho letto sul forum del suo fans club. Ma lo sai che si è baciato con la ballerina professionista di Maria.»

«No, ma che dici? Ma quella bionda?»

«No, quella mora con le tette grosse.»

«Ma sei sicura?»

«Si sono sicura, me lo ha confermato Selly, la sorella di Penny; l’ho contattata ieri sera sulla chat di effebikappa…»

«Effebikappa

«Facebook cretina. Ma dove vivi? Su Giove?»

«No, su Saturno. Ah ah ah.»

«Ah ah ah.»

Loro non mi vedono, ma sorrido anche io.

A ore 12 invece, ci sono due signore, a occhio e croce quarantacinquenni, diciamo a metà tra l’età della smentita e quella della conferma (della menopausa):

«Ah signora ieri sera Carlo Conti l’ho fregato, ho indovinato la parola della “Ghigliottina”…»

«Si? Io non indovino mai…»

«Eh, ma è tutta questione di logica. Tra la prima e l’ultima parola deve trovare il collegamento esterno.»

«Mah…Sarà ma a me non convince…Non si vince mai.»

«Si vince, si vince. Pensi che il cugino di mio cognato è andato da Bonolis e ha vinto ventimila euro in gettoni d’oro.»

Tra queste persone ci sono anche molti stranieri. Filippini, giapponesi, russi, slavi, americani, messicani, marocchini.

Ognuno di loro, soli o in compagnia, parlano con una lingua diversa. Molti discutono tra di loro o al telefonino. Ma non nella loro lingua autentica. Spesso in dialetto. Usano uno slang particolare, come se un milanese parlasse con un siciliano per intenderci. E anche se volessi intuire non capisco niente di cosa dicono. Per me possono anche stare per programmare un attentato ma io li guardo e sorrido comunque. Oggi sono da smile.

Alla mia destra poi, ci sono due ragazzi. Due street boys. Cappellino Yankees in testa, felpone Foot locker, di quelle a tinta unita a 29 euro, pantaloni a cavallo bassissimo, Mj ai piedi. Si salutano col Dap, il tipico saluto a mano aperta, simbolo – nel bronx americano – di orgoglio e dignità:

«Bella zio.»

«Bella fratè.»

«Ma l’hai vista la partita stanotte?»

«Si. Guarda l’arbitro l’avrei ammazzato. Ma come fai a fischiare fallo all’ultimo secondo del terzo quarto senza contatto?»

«Eh senza contatto…»

«Oh, non l’aveva manco sfiorato.»

«Ma come, gli ha messo la mano in faccia…»

«Macheccazodicizio? »

«Vabbè, comunque al quarto quarto Kobe ha fatto lo show. Ha fatto proprio “DioscesoinTerra”. Quindici punti consecutivi negli ultimi sei minuti. Un break di dieci a zero. E la partita l’ha portata a casa da solo.»

«Ma te l’eri giocata?»

«Ovvio. Era data a 5. Ho vinto n’a piotta.»

«Grande!»

Li ascoltavo, interessato più al modo che al contenuto delle loro parole. Raccontavano della partita come la parabola del sacerdote la domenica a messa. Come se il basket fosse la loro religione. Il loro credo. Il loro unico amore. Con un furore, un phatos, un’eccitazione, un coinvolgimento tale che sembravano essere loro i protagonisti di quella partita. Invece si trattava di Los Angeles Lakers Vs Boston Celtics, una partita della NBA, il campionato americano di pallacanestro, che hanno visto in diretta alla TV alle 3 di notte, per via del fuso orario. La passione è passione.

Mi hanno messo di buon umore. Accendo la musica. Nelle cuffie del mio ipod ascolto Georgia on My Mind di Ray Charles.

Ore 19:00. Torno a casa, non sono stanco. Mi cambio e vado a cena. Oggi in palestra non ci vado. Non mi va. Di solito non sgarro, ma oggi mi sento di trasgredire a me stesso. Alle mie abitudini. Oggi si cambia vita.

Questa sera anche il “solito” sashimi di Atasuke, lo chef giapponese del ristorante sotto casa, era diverso. Saranno stati i molluschi freschissimi, o la giusta quantità di wasabi, oppure le radici di daikon tagliate sottili che decoravano e coloravano il piatto, ma era così saporito che nel mangiarlo ho goduto come uno stallone in calore. Come non mi succedeva da anni.

Una cosa è cambiata. Ed è la ragione del mio sentirmi felice oggi. Giovanna. L’ho sentita. Mi ha chiamato:

«Ciao Alberto.»

«Ciao.»

«Come stai?»

«Bene. Tu?»

«Bene. Sto guardando un film in streaming

«E che guardi?»

«Amores perros di Alejandro González Iñárritu. L’hai visto?»

«No, a me non piace il cinema spagnolo.»

«Ma è messicano…»

(Cazzo di nuovo. Bocca mia taci che è meglio!).

«Ah. E di cosa parla?»

«Sono tre episodi intrecciati tra di loro, dove i personaggi interagiscono con i cani e tra loro.»

«Con i cani?»

«Si, con i cani. Ma è complicato da spiegare. E’ il primo di tre film che compongono la cd. “Trilogia sulla morte”.»

«Mamma mia, che tristezza…»

«Si, lo so ma a me piace riflettere. Anche sulla morte. E a te?»

«A me proprio no.»

«Forse perché tu hai paura della morte.»

«Io non ho paura della morte.»

«Si. Si. Hai paura. Sei un fifone.»

«Beh si, forse un po’.»

«Ma non c’è niente di male ad avere paura. A me invece piace pensare a quando morirò. E voglio essere cremata.»

«Va bene. Okay. Senti parliamo di altro.»

«Ahahahhaah. Okay. Volevo dirti che sono stata bene con te.»

«Anche io. A parte il fatto che pensi a quando morirai e al colore della tua pelle, non avrei nulla in contrario nel rivederti.»

«Scemo. Davvero non ti piace il colore della mia pelle?»

«Si. In realtà sono razzista.»

(Non è vero. Mi fa impazzire il colore della sua pelle. E poi emana un odore naturale buonissimo. Sa di uva. Di uva dolce).

«Perchè non ti fai sbiancare come Michael Jackson?»

«Cretino. Senti io vado a vedere la mostra di Dalì questo week end. Vuoi venire?»

«Questo week end? Aspetta, fammi controllare la mia agenda…Ahaaahhahaha. Si, per me è ok.»

«Ahahahahahha. Bene. Ci sentiamo allora. Buona notte. Un bacio.»

«Si. Buona notte. Un bacio.»

Me la vivo con molta prudenza questa frequentazione. Come un neo-patentato a cui il papà ha comprato l’auto nuova. I primi mesi sono di rodaggio. Devo ancora conoscerla bene, ma – nonostante la giovane età – non è affatto immatura. E’ una ragazza intelligente. Acuta. Ascolta il country, adora il cinema messicano, va a vedere le mostre d’arte. E’ una tipa tosta insomma. Strong. Una vera leonessa d’Africa. Mica una bimbo-minchia che guarda il Grande Fratello. E io non voglio fare la figura del beduino della steppa della Penisola araba. Eh eh eh.

Sono steso sul letto, guardo il soffitto e nello stereo in sottofondo gira il disco di Keith Urban, Get Closer, il famoso cd che mi ha regalato Giovanna.

…Però, bello il country. Il benjo, l’armonica, questi suoni inusuali mi fanno sognare. Chiudo gli occhi e sogno lei, che è la mia principessa prigioniera in un lontano castello medievale. E io sono il suo cavaliere magico. Proprio come nelle favole, percorro chilometri di strada non asfaltata, supero montagne di roccia, attraverso deserti con lunghe dune di sabbia. Ho caldo. Ho sete. Ma la voglia di vederla mi fa passare ogni stanchezza. Ogni dolore. Ogni sofferenza. Sono qui. In Oman. Davanti a me il forte seicentesco di Nizwa, l’antica capitale. Lei è rinchiusa nella torre più alta. Grida. Sto salendo le scale. Le guardie armate mi inseguono e…

«…Ahia…Zanzara di merda. Mi hai svegliato. Stavo sognando, cazzo.»

…Vabbè. Vado a dormire. Chissà se la risognerò…

Continua…

Da “Solo io”

di Daniele Urciuolo

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