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L’abitato è diviso in due rioni, quello di Santa Maria e quello di Santo Stefano, in cui si trovano la chiesa parrocchiale, il Municipio e le scuole. Quasi nascosta tra le altre, c’è in questo paese una casa, ormata da una specie di torretta, chiamata ancor oggi “Castel Mozzo”, che dà il nome alla via nella quale si trova. Questa casa, nel 1750, fu teatro di strani avvenimenti che diedero origine alla leggenda di cui parlerò oggi.
Capita spesso che due anime diverse per educazione, desideri, aspirazioni, debbano trascorrere alcuni anni della loro vita in compagnia. E se ciò che ama uno è odiato dall’altro, e quello che l’altro compie è disprezzato del primo, può capitare che uno dei due, generalmente il più forte dei due, tenti d’interrompere il legame che li tiene uniti in maniera violenta. È questo il caso dei castellani di Castel Mozzo.
Lui era un carattere violento, passionale, prepotente e spregiudicato, odiato da tutti i suoi vassalli.
Lei era una donna mite, dolce, gentile, profondamente religiosa, amata da tutti. Nel profondo dell’anima, il castellano era geloso delle simpatie che la moglie riusciva ad attirarsi e, spesso, per vendetta sfogava su di lei, brutalmente, il proprio malumore. Romedio e Maddalena erano i loro nomi.
Un mattino di fine estate, Romedio ordinò ai servi di sellargli il cavallo e di sciogliere i cani: in paese si sussurrava che un orso si aggirava nei boschi della Val di Non, e lui desiderava ucciderlo, per potersene poi vantare con i castellani suoi vicini.
Per il momento però i cani sembravano non aver fiutato nessuna buona pista. Romedio continuò ad addentrarsi nel profondo della foresta, e man mano che il tempo passava, la sua mente perfida si perdeva nei pensieri di sempre. L’odiata immagine di sua moglie lo inseguiva anche dentro la foresta, in mezzo ai pini. Era stata lei a far scappare il suo orso, pensava il crudele castellano.
Romedio immaginò la moglie china sull’inginocchiatoio che aveva nella sua stanza da letto, davanti al quale passava intere ore della giornata a pregare. Interrompeva le preghiere solo quando il marito, stanco, tornava a casa e la frustava senza pietà, per ritemprare l’animo e rilassarsi.
Peccato che nemmeno le botte che quotidianamente le riservava, per quanto forti e dolorose che fossero, riuscissero a incrinare quel suo atteggiamento sottomesso, ipocritamente amoroso, quella sua aria da martire che tanto lo irritava.
Quando il castellano fermò il cavallo, si accorse di essersi perso: era nel bel mezzo della foresta, con i rami degli alberi che formavano un intreccio fitto sulla sua testa, e nessun orso era stato fiutato.
Irritato, il castellano si mise alla ricerca del sentiero per tornare al castello, quand’ecco scorse un vecchio eremita, seduto su un masso, intento a rigirare tra le lunghe mani ossute un teschio.
Romedio gli si avvicinò e lo apostrofò: «Vecchio fannullone, cosa vai chiedendo a quel teschio?». L’eremita lo guardò, e, riconosciutolo, gli rispose: «sarei curioso di sapere se questa era la testa di un mendicante o di un castellano…».
A queste parole Romedio avvampò d’ira, e sceso da cavallo e brandendo la spada, gettandosi sul vecchio gli trapassò il petto da parte a parte.
Prima di morire però l’eremita ebbe la forza di sussurrargli: «Per questa tua ignobile azione, vagherai senza pace per tutto il resto della tua vita!».
Sconvolto per l’azione compiuta e soprattutto per la maledizione ricevuta, Romedio balzò a cavallo e si lanciò al galoppo attraverso la foresta. Intanto, mentre il cavallo galoppava, meditava sull’accaduto, chiedendosi cosa fare per placare la collera di Dio che, lo sentiva, era ormai scatenata contro di lui. Giunto che fu davanti a castel Mozzo, però, Romedio dimenticò subito i buoni propositi. La galoppata non gli aveva calmato l’animo, il sollievo di essere a casa non era sufficiente a fargli dimenticare le parole udite. Non si sentiva più quello di prima.
Entrò in casa, e salì le scale che portavano alla sua stanza da letto: forse, avrebbe riacquistato la pace solo frustando la moglie. Entrò nella stanza della poveretta, e la vide inginocchiata come di consueto, il viso nascosto tra le piccole e fragili mani giunte, le spalle scosse dai singhiozzi.
Quella vista, invece d’intenerirlo, lo infuriò ancora di più. Sguainata la spada, il crudele castellano si gettò sulla moglie e le tagliò d’un colpo solo la testa. Poi, voltandosi di scatto, scese nuovamente le scale, balzò a cavallo e fuggì nella foresta, dove nessuno osò dargli la caccia.
I servi seppellirono la povera castellana, che venne pianta da tutti i poveri e gli infelici della vallata, ai quali tanto bene ella aveva fatto.
Probabilmente, nel giro di pochi anni questo delitto sarebbe stato dimenticato come tanti, se non fosse stato che il primo venerdì dopo i funerali di Maddalena, a mezzanotte in punto, non fosse stato scorto un uomo avanzare strisciando per le vie del paese, impossessarsi di una scala, appoggiarla al muro del cimitero, scavalcarlo, correre presso la tomba della castellana di Cloz e supplicarla a gran voce di perdonarlo.
Quell’uomo era Romedio, l’assassino di Maddalena, sua moglie. Nessuno però ebbe il coraggio di inseguirlo, impedendogli di fuggire nuovamente. Così, dopo un poco, Romedio poté rifugiarsi ancora nel folto del bosco. Ma il primo venerdì del mese successivo la scena si ripresentò, con l’uomo che ricomparve alla stessa ora, gemendo di rimorso. E così andò avanti, ogni primo venerdì del mese, di ogni mese, di ogni anno.
Un uomo, sempre più lacero, sempre più disperato, sempre più vecchio. E quando il vecchio smise di venire, comparve il suo fantasma, una figura diafana, trasparente, che a mezzanotte in punto di ogni primo venerdì del mese fluttuava tra le tombe dei defunti di Cloz e si fermava sopra la tomba di una povera donna supplicandola a gran voce di concedergli il suo perdono. Ma nessuno gli rispose. Mai. E Romedio, signore di Cloz, è ancora lì che chiede invano perdono alla moglie.
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