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"Il silenzio della musa" di Paula Vene Smith (traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, ediz. Longanesi)
La vicenda inizia tutta da un ritorno, carico di aspettative ed emozioni. Tra squarci di cielo grigio e file di taxi, Freya (questo il nome del primo personaggio femminile a comparire sulla scena) torna a Londra dopo cinque anni, nel maggio 2005. Ha con sé i tanti progetti per la gioia di tornare in un luogo amato: visitare la mostra su Caravaggio alla National Gallery, dare un’occhiata ad una rara collezione di dipinti fiamminghi con la prospettiva di avere tanto tempo a disposizione tutto per sé; ancora non sa che il suo soggiorno a Londra verrà completamente assorbito da una vicenda ben più avvincente e segreta, di cui lei sola si farà l’unica decrittatrice. Già dalla prima pagina il motivo del viaggio e del cambiamento si intreccia immediatamente con il suo contrario: una casa carica di libri e di memorie, dove i rumori della vita sono attutiti da tappeti preziosi e librerie stracolme, dove pesanti tendoni impediscono alla luce di entrare dalle finestre. Ad aspettarla lì, in un mondo che per lei assume connotati familiari, una persona a lei cara, Sophia Alstead, cui da poco è morto il marito Joen, e i quadri del pittore danese Victor Riis: “…e anche lì, per terra, quei quadri mantenevano intatto il loro fascino. Erano sei e raffiguravano stanze eleganti e spoglie sui toni del marrone, del bianco e del grigio argento. In tre di essi appariva una donna vestita di nero, voltata di spalle. Negli altri tre, invece, lo spazio rimaneva vuoto.”
Ed ecco qui il nucleo misterioso della storia. Per quale motivo nei quadri del pittore danese viene a mancare improvvisamente l’immagine della sua musa ispiratrice, la moglie Severine, cosicché l’artista, pittore prolifico ma abitudinario, è costretto a dipingere solo stanze vuote?
A dirimere la questione, l’autrice sviluppa l’intreccio su tre diversi piani temporali: quello di Freya, che torna a Londra da Sophia, per lei quasi una seconda madre, e incontra un ex compagno di studi, Peter, cui è stata affidata la valutazione dei dipinti di Riis; quello di Severine Nielsen, giovane moglie del pittore Viktor Riis, nella Copenhagen del 1905; e a metà tra i due, il punto di vista della stessa Sophia ma più giovane, moglie del diplomatico danese Joen Alstead, in missione nella Romania della dittatura socialista, a Bucarest nel 1984.
Anche la sintassi narrativa è diversa per ognuna delle tre donne: per la Freya dei giorni nostri il ritmo è più incalzante e nervoso, in consonanza con il desiderio febbrile della ragazza di scoprire il mistero dei quadri; per Severine Nielsen, c’è il punto di vista intimistico e tutto interno al personaggio del diario da lei tenuto; per la Sophia degli anni Ottanta, l’atmosfera sinistra e orwelliana della dittatura di Ceausescu (forse non a caso l’anno è proprio il 1984, titolo del famoso e straniante romanzo di Orwell), dove la realtà è stravolta e adulterata persino nella rappresentazione della mappa della città, fatta di strade inesistenti.
A riunire il tutto e a risolvere il mistero saranno proprio la modernità e la giovinezza di Freya, personaggio centrale che conferisce organicità e coesione alla trama; sarà proprio il suo modo di relazionarsi con le persone, il suo acume nell’intuire i segreti nascosti sotto le parole criptate del diario di Severine a dare la risposta finale. Ed è interessante notare che il mistero sotteso ai quadri non risulta mai nel libro un esercizio letterario ed intellettualistico, in quanto si collega sempre e profondamente alla natura personale e segreta delle tre donne protagoniste. Delle quali nessuna è dominante, ma sicuramente Freya rappresenta la sintesi finale, poiché nella ricerca intrapresa e portata a termine lei riesce non solo a scoprire legami e motivazioni del passato, ma anche a trovare una risposta esistenziale per se stessa, individuale e viva.
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