In occasione della Giornata Nazionale del Post Banale, partecipo con questo pezzo romanzato, che a rileggerlo sembra un sogno d’oppio.
Ho tentato di riassumere, in questo breve racconto, le impressioni ricavate dall’ultimo anno di blogging, dall’interazione coi lettori, dalle polemiche che sono esplose puntuali sull’editoria, sugli eBook, sulla narrativa di qualità, sui blogger stessi, etc, etc, etc…
Cose che, in realtà, mi sono lasciato alle spalle, spero, preferendo concentrarmi solo su ciò che mi piace scrivere, tirandomi fuori, lentamente, da questo modo distorto di vedere le cose.
Credo anche di aver fallito lo scopo dell’iniziativa, o magari no. Forse me lo direte voi.
In ogni caso, più di qualcuno si riconoscerà, da una parte e dall’altra della barricata.
Si tratta di percezione, di raccontare le cose, di satira senza cavalcare nessuna onda polemica. O forse sì, giusto un po’.
Magari ci lasciamo dietro anche qualche riflessione. Spero vi diverta.
Buona lettura.
***
Il Silenzio della Rete
Oltre la finestrella con le sbarre, dall’altro lato del corridoio, a quattro metri d’altezza, c’è l’orologio.
La cornice di plastica bianca, coperta di uno strato appiccicoso, le esalazioni di grasso che vengono dalla fucina delle idee.
Segna del 10:30.
Ce n’è uno di fronte a ogni cella, sempre a quattro metri d’altezza, che ci si deve piegare attaccati alla porta, testa incassata verso l’alto, per sapere che ore sono.
Serve a vedere il tempo in prospettiva, ha detto il Dott. Pubblico, e per non dimenticare che passa…
In realtà è lì sopra perché nessuno di noi pazienti, mettendosi uno sulle spalle dell’altro, possa raggiungerlo con facilità, smontarlo, e con le lancette farci delle punte. E magari poi ficcarle nei reni o in gola a qualcuno che ci sta sui coglioni.
Per ogni cosa c’è una spiegazione non banale. Ma il Dott. Pubblico dice che questo modo di vedere è sbagliato. E per costringerti a cambiare idea ti dà le pillole nei bicchierini, di quelle rosse, che ti fanno le gambe molli e la testa leggera, e guardare i Reality Show in TV.
Il problema principale, prima di arrivare agli orologi e impiegare il tempo come più ci piace, è riuscire a uscire dalle celle e ritrovarsi insieme, per cominciare.
Sento i passi in fondo al corridoio, arrivano.
Tipo robusto, faccia da porco, dalla finestrella ringhia che mi metta in un angolo, faccia al muro.
La serratura scatta, entrano. «Girati!» bercia.
Mi accolgono vestendomi con la camicia. Stringono le cinghie sulla schiena, in un abbraccio forzato. «Devi volerti bene!» ordina.
Mi spingono fuori. Do uno sguardo alla feritoia della cella accanto, Lei mi guarda con gli occhi da cane bastonato, si morde le labbra, stacca l’indice dalle sbarre e lo muove al mio indirizzo. Rispondo con un cenno del capo.
Riesco ancora a farla sorridere.
Mi scaraventano sulla sedia. Dietro la scrivania, il Dott. Pubblico mi squadra con un sopracciglio alzato, la fronte solcata da rughe.
Sfoglia la mia cartella, aperta sul ripiano di legno scuro. Lo fa con noncuranza, come sempre.
Alle sue spalle, sul camino acceso, il poster di Cinquanta Sfumature, una cravatta che pare un cappio. Tutt’intorno, che corrono sulle pareti, altri poster in serie: i best seller degli anni a venire.
«Ciao, Germano.»
Il Dott. Pubblico ha la voce sottile, come quella che attribuiresti a un coniglietto divino. Più una sfumatura d’autorità mista a odio, che sta a ricordarmi lo stronzo che sono, secondo lui.
«Non saluti? Bene… ricordami perché sei qui.»
«Perché voglio scrivere.»
Pubblico richiude il fascicolo, c’è il mio nome scritto di fretta sulla copertina.
«Sincerità, ricordi?»
Annuisco.
«Vuoi scrivere per vivere, ecco perché sei qui, insieme ai tuoi pazzi amici. Non ce la raccontiamo, per favore…» Si appoggia all’alto schienale foderato di pelle.
«Sì, be’…»
«E vuoi farlo senza assistenza… senza il Giudizio degli Editor, senza il Benestare degli Editori…»
«Ecco io…»
«E per farlo scrivi questa roba qua» riprende il fascicolo, tirandoselo addosso e sfogliandolo energico. Individuata la pagina giusta, legge a voce alta: «Il soggetto scrive di una giovane donna, vestita come una prostituta, ammalata di cancro, sessualmente dubbia, che possiede superpoteri, anche se non si capisce davvero quale sia la loro natura e il loro funzionamento; è inoltre dotata di un caratteraccio, mostra di non avere rispetto per niente…»
«Simpatica, no?»
Smette di leggere, mi guarda, ricomincia a parlare: «Infarcendo il tutto con scene truculente e dettagli che fanno ribrezzo. Qui leggo “fili di budella umide spuntavano di fianco, appese, tra il materasso impastato di rosso e le tavole del pavimento”…» Sospira. «Ebbene?»
Allontana il fascicolo con un gesto di stizza. Scivola sul ripiano, s’infila sotto lo smartphone.
«Ebbene cosa?»
«Non fornisci nemmeno spiegazioni del perché la tua protagonista abbia questi poteri, come funzionano…»
«Ma se lo spiego, decine di criceti infuriati mi vengono a dire che “faccio infodump” e che non capisco un cazzo di scrittura!»
«E se non lo fai i lettori ti sbranano dicendo che “non si capisce niente”…»
«Proprio così! E mai una parola sulla storia! Se gli è piaciuta o no…»
«E poi ti meravigli del fatto che tu sia qui? Sai, tu e gli altri… a volte mi divertite davvero.»
«Ma io non credo di essere chissà chi! Sto solo provando a… scrivere delle storie.»
«Non penserai sul serio che cose così possano piacere… che tu possa viverci. Già la pretesa di essere pagato per scrivere ti ha condotto dove sei. Se a questo aggiungiamo che non scrivi nemmeno le cose giuste, capisci che sei ben lontano dalla guarigione.»
«E quali sarebbero le “cose giuste”?»
«La letteratura alta, non storielle banali, di tettone divorate dai mostri…»
«Quello ha un dono imprescindibile, è carta che si tramuta in soldi, nasce già così: parla di sesso, potere, vampiri, immortalità. Passioni brucianti.»
«Anche i film porno trattano di sesso e potere! Ci fanno barche di soldi!»
«È il Pubblico, a decidere. E poi, se una storia è valida, allora non ha bisogno di tanti sforzi perché sia notata e pubblicata. Accade e basta.»
«Ma io…»
«Scrivi per passione, e la passione non si compra, si semina.»
«Ma i semi hanno un costo!»
«Finché l’editor non dice di sì, non ne hanno. È uno che ha studiato, lui ne capisce.»
«Ho studiato anch’io! Ne capisco almeno quanto un editor!»
«No, la verità è che sei solo invidioso, perché altri ce l’hanno fatta. Hanno letto manuali, appreso il metodo, e hanno pubblicato. Tu no. Guarda in faccia la realtà: la tua è la storia della Volpe e dell’Uva… Te ne stai sul tuo blog a insultare, pretendendo di spacciare le tue storielle e di avere regali in cambio, per di più senza fare amicizia con nessuno. Sei patetico.»
«E allora… che cosa dovrei fare?»
«Scrivere storie con le quali la gente si identifica: amore, depressione, figli drogati, donne tradite… cose così.»
«E a quel punto venderò?»
«Chi può dirlo? In queste cose non c’è alcuna certezza…»
«Ma se hai appena detto che…»
Alza l’indice. «E non dimenticare mai di essere umile, di studiare, di ringraziare anche per le stroncature stupide. E non parlare male dei professionisti, tu, lurido blogger!»
«…»
«Portatelo di nuovo nella sua cella, che si schiarisca le idee…»
Braccia robuste mi prendono di peso, trascinandomi verso la porta.
«Aspettate!»
Mi fermano.
Il Dott. Pubblico mi fissa, dito sotto il naso, aria d’analisi: «A guardarti, alto, possente, barba incolta, capelli lunghi, non fai nessuna pena.»
«N-non faccio pena?»
«Non sei una ragazzina diciassettenne piena di sogni nel cassetto che scrive fantasy. Non sei vendibile. Tu metti paura alla gente, con quel tuo aspetto selvaggio e l’aria da attaccabrighe. Dovresti accettare la realtà e piantarla, andare a raccogliere arance! Sai, quei mestieri di una volta che nessuno vuole fare più, perché tutti si credono artisti…»
«Ma se invece di scegliere sulla base di preconcetti e stronzate, provasse a guardare le cose da una prospettiva diversa? Il mondo cambia, sa? I blogger e gli eBook non sono il m…»
«Non provocarmi.»
Di ritorno, Lei allunga un braccio per passarmi un foglietto. Ci riesce, prima di ricevere un colpo di manganello, e ritirare la mano dolorante. Sorride ancora.
È la recensione di un film che non vedrà nessuno, che parla di mostri, in un paese in cui vogliono solo storie d’amore, essendo incapaci di viverle.
Mi ributtano in cella.
Sdraiato sul materasso, osservo i raggi di sole che tagliano l’aria piantandosi a terra. Fuori, neppure un cinguettio. È il silenzio della rete.