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Il sillabario del precario

Da Femminileplurale

Vi presentiamo oggi il contributo di un amico sul tema della precarietà. Come psicologo, Francesco si è occupato con la sua associazione del problema del precariato/precarietà e della sua influenza sulla vita di chi si trova in questa diffusa situazione (non)lavorativa. Gli abbiamo posto alcune domande sul tema, che riteniamo essere centrale per le giovani e meno giovani generazioni, e questo è il risultato della nostra “chiacchierata”.  

Precarietà, o della mistificazione

Innanzitutto un saluto a tutte le amiche di Femminile Plurale e vi ringrazio per avermi posto queste domande sul tema della precarietà, tema che mi ha visto insieme a tutti i colleghi dell’Associazione Macramè impegnato in un progetto che aveva l’ambizione di esplorare in maniera più approfondita i significati psicologici che stanno dietro a questo termine.

Il sillabario del precario

Io partirei essenzialmente – prima di rispondere alle vostre domande, che sono molto complesse e in qualche modo rischiose, si potrebbe andare a zonzo per altre questioni tale è la complessità – partirei dicevo, dalla delimitazione del concetto perché oggi, ad esser precari, non sono i contratti di lavoro, sono le istituzioni. Di fatto la precarietà è un sintomo, secondo me, ed è un sintomo che segnala la friabilità, l’inconsistenza delle istituzioni sociali contemporanee; le istituzioni sociali dello stato, le istituzioni sociali delle comunità, l’istituzione della famiglia, le istituzioni sociali in generale. Il capitalismo “senza muro”, la globalizzazione, sono velocissimi, modificano le istituzioni sociali senza che queste possano fare molto. In Italia siamo troppo lenti, siamo molto probabilmente uno tra i popoli tra i più restii al cambiamento e se parliamo del capitalismo italiano post Cortina di Ferro, post Muro di Berlino, la situazione è drammatica perché è stata affidata, molto probabilmente, al peggior monopolista tra gli industriali italiani.

La vostra prima domanda riguarda il modo in cui il precariato possa influire sulla vita delle persone al di là della sfera economica materiale, ed è il punto, ma va sovvertito. Bisogna proprio partire dall’al di qua delle economie, dei rapporti economici, delle condizioni economiche, perché il tipo di rapporto che c’è tra i soggetti e che c’è tra i soggetti e le istituzioni, determina molto. Quindi non si può partire al di là, bisogna partire al di qua. Il tipo di rapporto economico che c’è tra individui e quello che c’è tra individui e istituzioni è il punto di partenza, e questo rapporto oggi è  soggetto a un cambiamento molto più variabile, i cui vincoli, i i cui rapporti sono meno solidi, meno indeterminati, al di là del tempo e degli eventi.

La precarietà va a cogliere in maniera ineluttabile la modalità in cui il soggetto si rapporta al cambiamento, allora noi dobbiamo fare uno studio storico, sociale e culturale, cioè ci dobbiamo addentrare un attimo nella nostra storia e nella storia delle generazioni che ci hanno preceduto. Questo è fondamentale per il modo in cui noi affettivamente ed emotivamente viviamo la condizione della precarietà nel lavoro, che è dettato dai retroscena culturali e storici delle generazioni passate attraverso le quali facciamo differenze e attraverso le quali giudichiamo il nostro stato attuale, insieme anche alle aspettative sul futuro di queste stesse generazioni. È una questione che attiene l’eredità. Le condizioni economiche e materiali di un soggetto precario sono anch’esse precarie, manco a dirlo, e il termine “precarietà” è un termine che in realtà cerca di nascondere di offuscare la vera questione. È una parolaccia, la precarietà. È una parolaccia perché tenta di coprire la questione fondamentale che è la disoccupazione o il rischio di disoccupazione, ed è la variabile, potenzialmente maggiore, di cui si parlava prima rispetto al tipo di rapporto economico tra individui e tra individui e istituzioni. Il precariato è stato inserito come figura perché attualmente, nel mondo occidentale, il rischio di disoccupazione è maggiore e neanche i contratti a tempo indeterminato, che così chiamati sembrano peggio di un matrimonio [1], sono così fedeli, lo vediamo oggi in Grecia.

La cosa interessante è che con l’Associazione Macramè avevamo intenzione di studiare tale campo propria a partire dalla crisi economica degli anni passati, quella partita dagli Stati Uniti e dai mutui, perché  la consideravamo una crisi di sistema ed era interessante cercare di capire cosa significasse dalla nostra prospettiva, dal nostro punto di vista professionale, poiché per noi psicologi oggi è molto più importante non tanto «…l’assenza di malattia, ma lo sviluppo pieno degli individui e dell’intera comunità…». Quello che succede in Grecia, così vicina, è lo spauracchio di una economia, questo tipo di economia, che non è più in grado di proteggere ciò che prima si pensava potesse tutelare, il lavoro, il lavoro a tempo indeterminato compreso quello nelle aziende pubbliche. È una nuova parola che serve per coprire il fatto che il rischio di disoccupazione è più grande a prescindere dal tuo tipo di contratto, se poi il contratto è di tipo precario questo viene messo in chiaro proprio nel tipo di vincolo che si instaura tra lavoratore ed azienda, come tra il lavoratore e gli altri soggetti appartenenti alla propria comunità, noi in Italia dobbiamo il nostro stato di cittadinanza sul lavoro, non è una cosa da poco.

Il precariato influenza la vita affettiva? Questo è un dato di fatto. Freud diceva che una persona è sana quando sa amare e sa lavorare, quindi il lavoro è un ambito fondamentale nell’essere umano. Quello che ci suggerisce Freud ha a che fare con la coniugazione, il matrimonio, tra i verbi sapere, amare e lavorare. Il ruolo lavorativo va ad incidere su che persona io sono, in Italia senza questo si potrebbe inciampare anche nell’assenza di senso di appartenenza e cittadinanza. Il rischio è elevatissimo perché si riflette sulla friabilità, l’inconsistenza dei soggetti. Ed è un fenomeno nuovo. L’Italia agricola pre-industriale costituiva la sua identità lavorativa fin dall’infanzia, il contenitore per la creazione di cittadini e lavoratori era la famiglia. Nel boom economico la scuola e l’azienda si sono inserite come istituzioni che contribuiscono a ciò. L’operaio Fiat era operaio per tutta la vita, l’artigiano pre-industriale era artigiano per tutta la vita, e non solo la sua ma anche quella delle generazioni che lo avevano preceduto. Questo, a grandi linee e generalizzando non di poco, dà però l’idea di come il lavoro sia un ambito che fa il soggetto, il cittadino. Oggi, con questo tipo di precarietà, ciò che si va a minare non è tanto il lavoro, ma la costruzione dei soggetti, dei cittadini. Questo è un fenomeno strutturale sulla vita delle persone. Un fenomeno affettivo che si nota in maniera lampante è il senso di fallimento che attraversa i lavoratori precari, che rimangono in un circolo vizioso lavoro-disoccupazione-lavoro-disoccupazione. Sono soggetti che si sentono responsabili per la loro situazione e allo stesso tempo, paradossalmente, si vivono in maniera totalmente passiva. Sono situazioni disperate, perché l’uomo come lavoratore viene umiliato e sbeffeggiato doppiamente. Il soggetto precario è un soggetto con-storico, non fa la storia, la subisce, e allo stesso tempo si percepisce come responsabile, quindi come soggetto storico, della propria situazione. Una via d’uscita è quella di mostrare come non si abbia nessuna responsabilità della situazione generale, che questa già mina la nostra vita materiale, non può minare quella affettiva, perché in realtà i lavoratori precari sono lavoratori qualificati, efficaci, non sono loro i falliti, ma chi veramente ha fallito è il sistema lavorativo che sembrerebbe non avere più bisogno di lavoratori con cui crescere e svilupparsi. Allora il soggetto può smettere di essere precario, dentro, cioè può smetter di pregare il lavoro, svalutandosi come soggetto, alzarsi in piedi, essere consapevole del modo attorno e riqualificarsi come soggetto che sa amare e lavorare.

L’idea di mobilità, come quella di precarietà, non è né positiva né negativa, bisogna vedere che effetti ha. Torniamo alla questione dello studio delle generazioni passate. La generazione dei nostri nonni è una generazione che è emigrata, anche per la nostra, ma i due fenomeni sono diversi. La “mobilità” di oggi ritengo sia sempre una copertura del termine “disoccupazione”, o “rischio di disoccupazione”. Oggi per mobilità si intende una situazione in cui un lavoratore in eccedenza in una azienda invece di incorrere in una chiara disoccupazione riceve contributi per avviare una riqualificazione delle proprie capacità lavorative attraverso servizi di formazione. Di per sé non c’è nulla di sbagliato. Vorrei però sottolineare come tali termini che sempre e in qualche maniera coprono il termine disoccupazione, o rischio di disoccupazione, sono sempre riferiti ai lavoratori. Una impressione, penso veritiera, è che alla precarizzazione o mobilità del lavoro, nella loro accezione positiva, non si abbia avuto come contraltare e in maniera simmetrica la stessa valenza in termini aziendali. Le aziende vivono la precarietà rispetto alla globalizzazione, in senso negativo, non sono capaci di vivere la precarietà come quella condizione che rende necessario il cambiamento continuo delle finalità produttive, del rinnovamento e delle sviluppo dei prodotti in termini di ricerca.

Alla precarietà dei lavoratori non corrisponde la precarietà delle aziende, nel senso positivo del termine. Il lavoro è sempre precario quando tende al cambiamento e all’innovazione. Anche la precarietà del lavoro in questo senso può essere qualcosa di positivo se si pensa che un lavoratore può cambiare il proprio ruolo lavorativo, può migliorare e cambiare il proprio lavoro. Ma oggi prevale un senso negativo, perché oggi la precarietà come la mobilità mina il progetto di vita dei soggetti e delle imprese. Basta pensare ai lavori a progetto, o per meglio dire aborti lavorativi ripetuti, lavoro e lavoratore non hanno la possibilità di crescere, svilupparsi, evolversi, maturare. Allora la mobilità diventa immobilità, la precarietà diventa assenza di sviluppo. Il soggetto è in grado di organizzarsi in maniera nuova rispetto al lavoro, ma il lavoro deve avere possibilità di evoluzione, perché altrimenti abbiamo soggetti che invecchiano senza essere mai cresciuti come lavoratori.


[1] Se consideriamo questa battuta per quello che è, cioè un motto di spirito, potremmo cogliere quanto sia consona alla precarietà del sistema familiare attuale.

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