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Il sogno del serpente senz’occhi

Creato il 30 aprile 2013 da Lundici @lundici_it

Che cos’è un fiume? Quale immagine si forma nella nostra mente quando pensiamo ad un fiume? La maggioranza di noi pensa ad un corso d’acqua che scorre tra due sponde relativamente vicine da poter essere collegate da un ponte. Eppure… eppure la vita ci pone, a volte, in situazioni in cui il nostro occhio è costretto a vedere ciò che la nostra mente non è pronta a comprendere, in cui dobbiamo fare il terribile sforzo di riadattare alcuni tra i concetti più fondamentali per non perdere la mente di fronte alla realtà, in cui anche ciò che vediamo va oltre il sogno e trascende l’incubo.

Nel 1541, i conquistadores spagnoli avevano già depredato i due maggiori imperi delle Americhe: quello Azteco, nell’attuale Messico e quello Inca, dove oggi sono più o meno Perù e Ecuador. Era stato finalmente trovato l’oro che Colombo aveva cercato invano durante i suoi viaggi. E ne era stato trovato a tonnellate. Quando Hernán Cortés nel 1521 conquistò Tenochtitlán, la capitale azteca, la quantità di metalli preziosi e ricchezze che videro i suoi occhi fu probabilmente maggiore di quella che lui e i suoi uomini avevano mai immaginato nei loro sogni.

Le navi che portavano quell’oro in Spagna, vi portavano anche il richiamo di ricchezze incommensurabili che attendevano solo di essere strappate a ingenui e piccoli indios. Ancor prima, nel 1513, Vasco Núñez de Balboa era stato il primo europeo ad attraversare l’istmo di Panama e a mettere piede nell’Oceano Pacifico. Ed era stato anche il primo ad essere informato dell’esistenza di un favoloso impero, che poteva essere raggiunto navigando vero sud su quel nuovo immenso mare, dove le case avevano i tetti d’oro e le strade erano ricoperte d’argento.

Il sogno del serpente senz’occhi

Mura inca in una strada di Cuzco (Perù), antica capitale dell’Impero Inca

Spinto da queste notizie e dall’impresa di Cortés, dopo diversi tentativi falliti drammaticamente, un rozzo, ma determinato condottiero spagnolo, riuscì a raggiungere le coste del Perù nel 1531. Quell’uomo si chiamava Francisco Pizarro e nel giro di pochi mesi e con pochi uomini, fu capace di impossessarsi dell’intero impero Inca.

Sembrava che il Nuovo Mondo potesse soddisfare la brama di ricchezza e realizzare i sogni di ogni spagnolo che lasciava la dura vita della brulla Castiglia o della desolata Estremadura. E’ da questi luoghi, poveri, assetati, dove gli uomini si erano nutriti per secoli del fanatismo cristiano della “Reconquista”, che partì la maggior parte dei condottieri e dei semplici soldati che “conquistarono le Americhe”. Per comprendere forse solo in parte quali sogni produceva ascoltare le mirabolanti gesta di Cortes e Pizarro in un paese castigliano, può essere utile pensare alle immagini che spinsero – fra l’altro – migliaia di poveri contadini italiani ad emigrare negli Stati Uniti ad inizio ‘900. Quelle immagini ritraggono galline giganti, carote di dimensioni sproporzionate e in generale un mondo dove tutto era letteralmente grande, bello, ricco…bisognava solo allungare la mano per andarselo a prendere.

Ma, anche se le spedizioni che oggi ricordiamo sono quelle di Colombo, Cortes, Pizarro e Balboa, questo non significa che non ce ne furono tante altre che finirono in tutt’altro modo. Chi giunse nelle Americhe dopo di loro, non trovò più templi le cui pareti erano ricoperte d’oro perché luccicassero come il Dio Sole o tombe di antichi re, brulicanti di smeraldi e metalli preziosi, nascoste da un semplice muro, o popoli che docilmente riempirono un’intera stanza d’oro per poter riscattare il loro imperatore tenuto prigioniero dagli spagnoli. Chi arrivò dopo, dovette cercarsi con più grande fatica il proprio sogno, scovarlo oltre le montagne, nelle selve, tra labirintiche leggende degli indios. E chi non lo trovò, dovette inventarselo…

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Gonzalo Pizarro (Trujillo, Spagna, 1512 – Cuzco, Perù, 1548)

Gonzalo Pizarro era il terzo fratello Pizarro, figlio bastardo di un colonnello di fanteria, così come era illegittimo il più noto fratello Francisco, di cui era 35 anni più giovane. I fratelli Pizarro erano quattro, tutti rudi, violenti, ma terribilmente ambiziosi e capaci di giocarsi tutto per raggiungere i propri obiettivi. Gonzalo era il prototipo di questa “seconda generazione” di conquistadores. Nonostante avesse partecipato con Francisco al gigantesco saccheggio dell’impero Inca, lui non aveva avuto la propria personale avventura, non aveva legato il proprio nome ad una spedizione leggendaria, non aveva mandato all’imperatore in Spagna navi che rischiavano d’affondare per la quantità d’oro che trasportavano. E, ora, dopo che l’impero Inca era stato depredato, soggiogato e spartito, ora era arrivato il suo turno.

A Gonzalo Pizarro fu affidata dal fratello Francisco, governatore dei territori del destituito impero Inca, la zona di Quito, l’attuale capitale dell’Ecuador. E fu proprio a Quito, dove, per la prima volta, Gonzalo Pizarro sentì parlare del “Paese della Cannella”.

La cannella è una spezia che si ricava dal fusto di un albero originario dello Sri Lanka. Come tante altre spezie, ebbe per secoli un valore enorme in Europa, che oggi ci riesce difficile immaginare. Fu proprio per trovare nuove e più economiche rotte commerciali per portare in Europa le preziosissime spezie che furono finanziate numerose spedizioni d’esplorazione a cominciare da quelle di Colombo, Vasco de Gama e Magellano. La cannella valeva letteralmente oro.

A Quito cominciò a diffondersi la notizia che a est, nelle pianure sconfinate oltre le montagne che circondavano la città, esisteva un fantastico paese dove gli alberi della cannella crescevano a perdita d’occhio. Erano tante le leggende che circolavano nelle Americhe di quell’epoca. Si amplificavano e si moltiplicavano negli occhi e nei sogni di chi, come Gonzalo Pizarro, non si era ancora saziato di ricchezze o aveva lasciato il proprio paese lontano senza essersi ancora immerso nel luccichio dell’oro. Chi ancora non aveva trovato tesori, si convinceva che essi erano solo un po’ più in là, occultati nelle acque di un lago, sepolti nella selva, custoditi in una “ciudad perdida”, capitale di qualche regno ancora da scoprire. Interpretando i racconti degli indios, gli spagnoli erano convinti di essere ad un passo dalla fonte dell’eterna giovinezza o dal formidabile tesoro che i muiscas, il popolo che abitava l’area dell’attuale Bogotá, avevano nascosto all’arrivo dei conquistadores o altre incredibili meraviglie.

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La laguna di Guatavita, pochi chilometri a nord di Bogotá (Colombia)

Alcuni miti si sono così radicati nelle fantasie di quel tempo da esser giunti fino a noi, perlomeno nel linguaggio. Tuttora, infatti, utilizziamo ad esempio il termine “Eldorado” o “El Dorado” per riferirci ad un luogo o a un contesto dove abbonda la ricchezza, reale o figurata. “El Dorado” è una contrazione dello spagnolo “El indio dorado” o “El hombre dorado”, ossia “l’indio d’oro” o l’”uomo d’oro”. I conquistadores percorsero in lungo e in largo l’America del Sud nell’ossessiva ricerca di un chimerico luogo dove, in un annuale rituale, un capo indigeno si ricopriva di polvere d’oro (l’”uomo d’oro”) per poi immergersi in un lago dove gettava offerte d’oro ed enormi quantità di pietre preziose.  I condottieri che conquistarono l’attuale Colombia identificarono questo luogo leggendario con il lago di Guatavita, situata a pochi chilometri a nord di Bogotá. Ma nonostante questo lago conservi ancor oggi un fascino ed un mistero particolarissimi, l’El Dorado rimane tuttora un miraggio.

Ma se, oggi, queste storie ci appaiono assurde e campate in aria, in quel tempo le cose stavano diversamente. Non era forse vero che Cortes e Pizarro avevano scoperto civiltà meravigliose e ricchissime che erano rimaste sconosciute agli europei per secoli? Le stesse “visioni” che condussero Colombo a realizzare la propria impresa, avevano probabilmente lo stesso grado di veridicità delle leggende dell’”hombre dorado” o del tesoro dei muiscas.

E fu per questo che, nelle prime settimane, del 1541, dopo mesi di preparativi e dopo aver investito parte dell’oro derivante dai giganteschi saccheggi di Quito e Cuzco e quello di ricchi spagnoli che credevano nell’impresa, Gonzalo Pizarro partì alla volta del Paese della Cannella. Allestì la spedizione più imponente che gli spagnoli avessero mai messo in piedi in quelle terre; partirono con lui: 240 spagnoli, 4000 indios, 2000 lama e 2000 maiali. Inoltre, per disfarsi dei fastidiosi indios che avrebbe incontrato nel cammino, portò con sé anche un’arma efficacissima, della quale gli indigeni avevano un assoluto terrore: i cani…Della carovana facevano parte anche 2000 cani addestrati a gettarsi contro gli indios e sbranarli senza pietà.

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Paesaggio andino

Secondo i calcoli di Gonzalo Pizarro, le meravigliose distese di alberi che gli avrebbero donato ricchezza e gloria imperitura si trovavano nelle prime propaggini della selva che ricopre le terre ad oriente delle montagne di Quito: le Ande.

Chi conosce le Ande peruviane, ma soprattutto ecuadoriane e colombiane sa quanto sia ingannevole in quei luoghi la geografia. Quito, Bogotá, Cuzco sono città situate molto vicino all’equatore, ma intorno ai 3000 metri sul livello del mare: a quelle altitudini, il paesaggio, e la vegetazione non sono così diversi da quelli che si trovano in Estremadura e il clima assomiglia a quello di una mezza stagione castigliana. Eppure è sufficiente discendere una delle profonde e vicine valli per ritrovarsi in un caldo soffocante, circondati da una vegetazione violenta, catapultati in un altro mondo.

Pizarro era conscio delle difficoltà che lo attendevano e per questo aveva portato con sé cibo, armi e vettovaglie in quantità, ma quando, dopo aver superato con grandi fatiche le Ande a oriente di Quito, s’infilò nella selva, dovette rendersi conto che le sue “pre-visioni” non corrispondevano alle visioni che ostinatamente riempivano i suoi occhi e quelli dei suoi uomini. Nella selva, i suoni della natura diventano presenze, gli alberi sono giganteschi, i tronchi così massicci da essere indistinguibili, arrivando a sfidare il nostro stesso concetto di “albero”: crescono uno addosso all’altro, uno dentro l’altro, rubandosi a vicenda il nutrimento, i versi degli animali sono assordanti e incessanti, e sembra che i fiumi si rincorrano senza senso in un labirinto privo di vie d’uscita.

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L’imponente carovana cominciò a trovarsi in difficoltà, massacrata dagli insetti, senza riferimenti, senza sentieri, senza sapere dove andare. Forse Pizarro, nei suoi sogni, aveva visto ordinati e infiniti filari di rossi alberi della cannella, come fossero uliveti delle mesetas spagnole. Ma nella selva, la varietà e l’intrico degli alberi si rivelò presto essere tutto fuorché quel sogno. Gli spagnoli cominciarono a spazientirsi e ad interrogare sempre più ossessivamente gli indios, ascoltando i cui racconti Pizarro aveva costruito il proprio sogno. Dopo mesi di penoso cammino, e dopo che la morte già accompagnava la spedizione, giunsero al luogo indicato dagli indios. Gonzalo si rese però conto che seppure lì, avvolti dalla selva vorace, c’erano effettivamente alcuni alberi simili a quelli della cannella che lui cercava, essi erano troppo pochi e ben diversi dalla qualità che lo avrebbe potuto coprire di gloria e ricchezza.

Quando un sogno si sfalda davanti a noi come un castello di sabbia, quando la delusione ci brucia dentro come un fuoco, la prima reazione è spesso quella di rivolgere sguardo e colpe al di fuori di noi. Soprattutto se si è un rozzo e violento condottiero spagnolo nelle Americhe del ‘500, che ha investito una fortuna per perseguire una visione. Così, Pizarro, colmo d’ira, fece sterminare gli indios che lo avevano guidato fino a lì. E poi altre decine solo per sfogare la propria rabbia. Lì, nel ventre della selva che pareva soffocarlo.

A quel punto, la mente di Gonzalo Pizarro si annebbia, divorata dalla collera. Lui e i suoi uomini sono partiti da diversi mesi, i maiali sono stati macellati tutti, Quito è lontana, oltre le montagne, ma proseguire significa addentrarsi ancor più nell’ignoto. I cani sono sempre più affamati e anche loro cominciano ad innervosirsi. Pizarro non ci pensa due volte: fa massacrare gli indios superstiti e li dà in pasto ai cani. Del resto, nelle Americhe, la gerarchia è chiara: prima vengono gli spagnoli, poi i cavalli, poi i cani e infine gli indios. “Que no quede vivo un solo indio!” (“Che non rimanga vivo neanche un indio”) urla Pizarro, come un indemoniato.

Gonzalo Pizarro è il capo assoluto della spedizione, anche per essere il fratello di Francisco, il “padrone” di mezzo Sud America, ma con lui ci sono altri importanti e blasonati conquistadores che, come lui, hanno investito danaro e stanno rischiando la vita con lui per inseguire sogni di gloria. E, dopo le stragi degli indios e il sempre più evidente fallimento della spedizione, iniziano a manifestare qualche malcontento. Uno di questi spagnoli si chiama Francisco de Orellana.

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Francisco de Orellana (1511–1546)

Francisco de Orellana veniva dallo stesso paese dell’Estremadura da cui venivano i Pizarro ed era forse anche loro lontano parente. Come Gonzalo aveva fatto fortuna nel Nuovo Mondo, ma come Gonzalo voleva di più, e la spedizione verso il dorato Paese della Cannella era l’occasione per ottenerlo. Quando Gonzalo Pizarro, in cerca di finanziamenti, era passato dalla città in cui viveva e di cui era governatore, Guayaqui (nell’attuale Ecuador), Orellana era rimasto catturato dalle visioni di quel sogno incantato che si trovava lì, a portata di mano. Si affrettò a vendere i suoi possedimenti, ma non fece in tempo: quando giunse a Quito, Gonzalo Pizarro era già partito. La sua bramosia era però troppo intensa e con alcuni suoi uomini si impegnò in una marcia forzata prima sulle montagne e poi nella selva, riuscendo a raggiungerlo dopo qualche mese, seppure stremato e sfinito.

Quando nella selva la situazione si fece sempre più complicata, Orellana cominciò a sfilarsi da un atteggiamento di cieca obbedienza a Pizarro. A quel punto si trattava di portare a casa la pelle e un condottiero deve comunicare freddezza e sicurezza. Se invece il leader si mostra vittima della rabbia e invaso dalla paranoia, è probabile che qualcuno inizi a sfidarne l’autorità, osteggiando ogni sua decisione, forse solo per dimostrare agli altri e a se stesso che il comando toccherebbe a lui. In particolare, mentre Pizarro insiste a voler seguire il corso dei fiumi che discendono verso est, Orellana è convinto che sia più saggio piegare verso nord, in direzione delle città di Pasto e Popayan sulle Ande colombiane che egli conosce bene.

L’intrico dei fiumi diventa però un folle dedalo senza uscita, gli insetti sempre più voraci e la fame implacabile. Anche i cani sono stati sacrificati per potersi sfamare. Quando la spedizione giunge ad un corso d’acqua che sembra più grande degli altri, viene allora presa la decisione di formare un gruppo che lo discenda per qualche giorno in cerca di viveri e torni alla base a rifocillare chi rimane, tra cui sempre più malati e disperati. A quel punto Orellana, che si era sempre opposto a seguire i fiumi, comprende che è la sua occasione e si offre di guidare quella spedizione. Viene costruita un’imbarcazione e insieme a 56 altri uomini, tra cui un frate e tre dei pochi indios superstiti, Orellana s’imbarca sul fiume sconosciuto che scorre verso est. E’ il 26 dicembre 1541 e sono trascorsi 10 mesi dalla partenza da Quito. Orellana è sul ponte di una barca di fortuna, che scivola tra alberi giganteschi, Pizarro rimane, in piedi sulla riva del fiume, in un angolo sperduto della selva che non ha nulla del favoloso Paese della Cannella che aveva invaso le loro menti. I due si guardano. Orellana grida che torneranno entro pochi giorni portando provviste, Pizarro non risponde e alza la spada verso il cielo. Non si sarebbero mai più rivisti.

Orellana e i suoi uomini discendono il fiume per alcuni giorni senza trovare cibo o segni di vita. Incontrano invece altri fiumi che si mescolano a quello su cui stanno navigando portandovi tronchi, detriti e acque di ogni colore. La situazione peggiora e giunge quindi il momento di fare una scelta. Cosa fare? Tornare indietro, remando controcorrente, stremati dalla fatica e già sapendo cosa li attende oppure non fare ritorno da Pizarro e tentare la sorte proseguendo il viaggio lungo il fiume sperando di trovare viveri e salvezza? Cosa passò nelle menti di quei viaggiatori di seicento anni fa, sperduti nel bel mezzo del Sud America? Prevalse davvero un ragionamento logico seppure rischioso? Oppure vollero tradire Pizarro come fu poi loro imputato? O furono spinti, come Ulisse e i compagni, dal desiderio di spingersi sempre più in là, facendo dei remi “ali al folle volo”?

E’ difficile poter rispondere. Sta di fatto che scelsero di proseguire e, da quel momento la loro discesa lungo il fiume si convertì di fatto, non solo in una nuova spedizione guidata da Orellana, ma anche in una discesa nell’ignoto ventre di un territorio sconosciuto che nessun europeo aveva mai veduto prima.

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Dopo qualche giorno, allo stremo delle forze, Orellana e compagni raggiungono un villaggio indigeno sulle sponde del fiume dove sono ben accolti e rifocillati. Si fermano alcune settimane, riparano la barca, curano i malati e recuperano le forze. Ma recuperando le energie, recuperano anche la volenterosa disposizione a ubriacarsi di sogni. Nelle quasi incomprensibili parole degli indigeni, vedono regni potentissimi e ricchissimi che si trovano a valle o all’interno della selva, di cui tutti i villaggi sul fiume sarebbero tributari.

Mentre, ormai molti chilometri più a monte, Pizarro intraprende un drammatico ritorno a Quito dove giungerà con pochissimi uomini più morti che vivi, Orellana e i suoi riprendono fiduciosi il cammino sul fiume.

I giorni passano e il fiume diventa sempre più misterioso: nuovi e sempre più numerosi corsi d’acqua s’incrociano con il principale, ingrossandolo di ora in ora e trasformandolo in un possente serpente che si muove senza logica in mezzo alla selva. In alcuni punti sembra tornare indietro, poi allargarsi, poi dividersi, poi cambiare colore, poi rallentare…nessuno ha mai visto o avuto notizie di un fiume così…

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I viveri tornano a scarseggiare, gli spagnoli sbarcano in altri villaggi, ma non sempre sono ben accolti; in diverse occasioni devono combattere ed uccidere per procacciarsi il cibo. Altre volte sono bersagliati da frecce sputate all’improvviso dalla selva. Guardano verso le sponde indecifrabili, guardano verso l’acqua davanti, guardano il cielo sconfinato in alto…e cominciano a perdere il senno. Come in “Cuore di tenebra” e “Apocalypse Now”, il fiume si trasforma in un essere vivo, incarnando le angosce, le follie, i sogni e gli incubi di chi lo sta navigando e dai quali non solo non ci si riesce a separare, ma dai quali si è inesorabilmente attratti, “come un serpente affascina un uccello, un povero stupido uccellino”. Ma mentre i protagonisti del libro di Conrad e della pellicola di Coppola, risalgono il fiume e conoscono il loro obiettivo, Orellana e i suoi uomini lo discendono e non hanno alcuna idea di dove li porterà: il loro viaggio non è perciò figlio di una volontà per quanto folle, ma di un totale abbandono ad un destino che – per quanto ne sanno – può condurli anche oltre la fine del mondo.

Cominciano a vedere delfini rosa, incrociare canoe con bambini che giocano con serpenti lunghi sei metri e pesanti come tre uomini, finiscono ossessionati dal suono minaccioso di lontani tamburi e sono sommersi da piogge improvvise e devastanti. Il fiume diventa sempre più grande, tanto che la loro mente non riesce più a racchiuderne il senso: come possiamo chiamare fiume un corso d’acqua diventato così largo che da una sponda non riusciamo più a vedere l’altra?

Il sogno del serpente senz’occhi

I delfini rosa vivono in alcuni fiumi di Brasile, Venezuela e Bolivia

Gli occhi di Orellana e i suoi uomini non sono più in grado di scorgere forme, cose o visioni che possano ricordargli il mondo da cui vengono. E allora, per non impazzire completamente, per non abbandonarsi senza rimedio alle spire del serpente, si aggrappano a miti e leggende di cui comunque hanno conoscenza. Lo stesso Colombo, durante il suo ultimo viaggio, senza riuscire o volere capire dove fosse arrivato, quando giunse alla sconfinata foce dell’Orinoco (fiume venezuelano che sfocia nel Mar dei Caraibi), di fronte a tale grandiosità e magnificenza, scrisse ai sovrani spagnoli di aver trovato il luogo biblico del Paradiso Terrestre. Così, quando, all’improvviso, su una sponda del fiume appaiono decine e decine di donne nude, aggressive e minacciose, Orellana e i suoi uomini sono certi di aver raggiunto il regno delle Amazzoni, le donne guerriere della mitologia greca, raccontate, tra gli altri, da Erodoto ed Eschilo.

La barca viene fermata e gli uomini scendono a terra come rapiti da quella visione. Secondo la tradizione, le Amazzoni combattono nude e a cavallo e si asportano la mammella destra per poter lanciare meglio con l’arco (l’etimologia greca della parola “amazzone” sembra essere “senza seno”). Nel loro regno, gli uomini servono solo ad inseminarle e sono poi uccisi, così come sono eliminati i neonati maschi. Per alcuni giorni, gruppi di spagnoli si avventurano nella selva, come stregati da queste visioni, come se ormai la follia di quel viaggio li avesse trascinati oltre i limiti non solo della realtà, ma anche di ogni possibile sogno.

Alcuni non torneranno mai più, altri lo faranno, raccontando d’aver visto le cose più incredibili: uomini che vagano senza testa, serpenti volanti, sirene colorate e rospi giganti…Orellana riesce a ricomporre la sua truppa e organizzare la partenza: bisogna comunque proseguire, abbandonarsi nuovamente al grande serpente senza occhi che respira sotto la loro barca.

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La barca torna a lasciarsi trascinare dalla forza del fiume. Sono trascorsi oltre sei mesi di navigazione e Orellana e i suoi uomini non riescono più a dar spiegazione a ciò che vedono e a ciò che sta loro accadendo: cos’è tutta quell’acqua che sembra non finire mai? Verso dove stanno andando? E’ possibile che esista qualcosa del genere al mondo? Come la nave spaziale perduta di “2001: Odissea nello spazio” viaggiano ormai oltre l’infinito, portati dall’inerzia del loro destino. Un clima di delirio contagia tutto l’equipaggio. E comincia a diffondersi la credenza che il fiume li stia trascinando inesorabilmente verso la letterale fine del mondo. All’epoca era già abbastanza chiaro che la Terra fosse rotonda, ma quegli uomini non erano astronomi o geografi, e – soprattutto – erano da un anno e mezzo sperduti in luoghi al di là di ogni immaginazione, di fronte ai quali, anche in noi oggi, vacillerebbe probabilmente più di una certezza.

Gli uomini di Orellana si convincono che la fine del fiume coincida con la fine della Terra, ossia con una immensa e infinita cascata che li farà precipitare in un abisso senza fondo, verso cui la corrente del fiume li sta lentamente, ma inesorabilmente trascinando. I miraggi e le allucinazioni si susseguono, ma, ad un certo punto, tutti, proprio tutti non possono fare a meno di sentire un rumore di acqua sempre più vicino, sempre più incessante, sempre più assordante…la cascata…la fine del mondo…

Forse rassegnati, forse stregati da questo nuovo e definitivo prodigio, Orellana e i suoi sono pronti a tutto, anche alla fine del mondo. Ma, mentre pregano e stringono rosari e spade tra le mani, quello che vedono davanti ai loro occhi è invece un immenso muro d’acqua bianca….un’onda…un’onda gigantesca che risale il fiume e viene verso di loro…sbatte contro la barca, la solleva, la spazza via, sommergendola di acqua…e facendola girare come una trottola. E allora, proprio quando tutto sembra perduto e ogni possibile spiegazione inafferrabile, ecco che Orellana e i suoi uomini “sentono” qualcosa di familiare, qualcosa che riporta logica e salvezza: sale…l’acqua che viene verso di loro è salata…

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Il Rio delle Amazzoni è il fiume più lungo del mondo. Pur nascendo a soli 190 km. dall’Oceano Pacifico, sfocia nell’Oceano Atlantico dalla parte opposta del Sud America, dopo aver percorso 6.937 km. Come se il Tevere andasse a sfociare in India…

Sono giunti alla foce di quel gigantesco fiume, il più possente del mondo e quell’onda altro non è che il risultato dello scontro tra le acque del fiume e quelle dell’Oceano (clicca qui per vedere un video dell’incredibile onda, chiamata “Pororoca”, NdA). La forza del serpente li spinge per numerosi chilometri nell’Oceano, ma quello che conta è che sono salvi. E’ il 24 agosto 1542.

Orellana e i suoi uomini furono i primi europei a navigare il fiume oggi conosciuto come Rio delle Amazzoni, così chiamato proprio per la “visione” delle donne guerriere che essi incontrarono o raccontarono d’aver incontrato. Risaliranno poi le coste del Sud America in direzione nord giungendo ad una città spagnola due settimane dopo, dove troveranno rifugio e aiuto.

Orellana sarà prosciolto da ogni accusa di tradimento e sarà anzi nominato governatore di quelle terre dove però troverà la morte quattro anni dopo, durante un’altra spedizione alla ricerca di nuovi e più ricchi regni perduti…

Ma cosa videro invece gli indios? Cosa rappresentò per loro quella visione? Cosa significò per quegli uomini e quelle donne vedere passare davanti al loro mondo quella barca che ai loro occhi dovette sembrare gigantesca e fuori da ogni concezione? E’ ovviamente difficile immaginarlo. Lo scontro tra europei e indigeni fu sconvolgente in ogni luogo in cui accadde, ma, per gli indigeni forse fu più inquietante ed enigmatico in quell’occasione, su un fiume che scorreva e portava verso di loro, da chissà dove, quegli esseri misteriosi, a bordo di un’imbarcazione mai vista…Oltre ai massacri e a tentativi di dialogo, nell’incontro tra quei due mondi ci fu anche qualcosa di implicito e non detto, ma non per questo meno significativo. Per navigare su di un fiume, è sufficiente una canoa; per lanciare una freccia basta un arco o una cerbottana. Eppure quegli strani uomini che transitarono lungo il fiume, erano stati spinti da qualcosa a pensare oltre. In quell’imbarcazione gigantesca su cui apparvero e nelle balestre che sparavano frecce, nel processo mentale che li aveva concepiti, c’era questo qualcosa: ambizione, orgoglio, sogno, miraggio, curiosità, bramosia…qualcosa, qualcosa che dovette colpire nel profondo quegli indios che vivevano da secoli sulle sponde del fiume e che dovette avere una corrispondenza nel loro intimo, finendo per popolare i loro sogni…

Poco tempo dopo, nelle città sulle pendici orientali delle Ande dell’attuale Ecuador, Perù e Colombia, da cui il Rio delle Amazzoni si getta nella selva, giunsero migliaia e migliaia di indios. Arrivavano dalla selva, avevano risalito il fiume con le loro canoe, avevano remato controcorrente per chilometri e chilometri, avevano sfidato la sua forza. Volevano vedere da dove arrivavano quegli uomini, da dove veniva quel qualcosa

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