Il sogno di parlare col papa è il ridicolo di certi atei, d’altronde il ridicolo incombe su tutti, credenti e non credenti, sempre, perché è un infortunio della vanità, e la vanità è una debolezza umana. Nel caso degli atei che sognano di parlare col papa, la vanità sta nella presunzione di invincibilità dei propri argomenti contro la fede, che già in se stessa reca un grave rischio di infortunio, perché il miglior argomento contro la fede è l’indifferenza al problema di Dio. L’infortunio vero, però, si realizza nel desiderio di voler dar prova di tale invincibilità nel tenzone con chi si ritiene abbia i migliori argomenti in favore della fede, e nel ritenere che questi sia il papa, qualunque papa. Non è così, ovviamente, perché Tommaso d’Aquino era senza alcun dubbio un osso più duro di Niccolò IV, e Blaise Pascal di Innocenzo X. Bene, ritenere che, per il semplice fatto di essere assiso al vertice dell’istituzione che custodisce e difende la fede, il papa abbia i migliori argomenti in favore dell’esistenza di Dio, della sua incarnazione in Cristo, e via dicendo, è un implicito riconoscimento dell’azione dello Spirito Santo nel corpo della storia. Non è un caso, infatti, che il sogno di parlare col papa sia ricorrente anche in chi nutra la certezza di riuscire a convincerlo circa la bontà della propria eresia o della propria riforma.Tolti i casi in cui l’ateo si procuri da vivere grazie al suo ateismo e cerchi nella polemica diretta col papa un’occasione di promozione pubblicitaria alla sua professione, il discrimine in materia sta nell’asimmetria della finalità dell’argomentazione: dal papa all’ultimo dei pretonzoli, e al più fesso dei credenti, chi crede vuol convertire chi non crede, a tutti i costi; gli argomenti dell’ateo, invece, sono per lo più difensivi, e mirano a dimostrare che questa fregola è tanto più molesta quanto più la sostanza del credo sia inconsistente e quanto più gli effetti della conversione si rivelino sempre, in ultima istanza, deleteri.Qui, però, occorre porre un distinguo sul «credere», che è termine insidioso, come dimostra il frequente uso del sofisma che vorrebbe comunque «credente» («in altro», si è soliti dire) chi non crede nell’esistenza di Dio, nella sua incarnazione in Cristo, e via dicendo. Il distinguo sta nell’accezione che si intende dare a «credo»: se vuol dire «penso», «reputo», «ritengo», la fede non c’entra un cazzo, e il sofista andasse a farsi fottere.Trattandosi di debolezza umana, possiamo dire che il ridicolo è tragicomico. Si pensi all’«ingenioso hidalgo» che andava in giro con un catino di barbiere in testa credendolo l’elmo di Mambrino, e lo si compari al «matematico impertinente» (Longanesi, 2005) che s’è fatto dare pubblicamente del coglione da Ratzinger e, invece aprirgli il culo a spicchi, ne mena vanto, oppure all’«uomo che non credeva in Dio» (Einaudi, 2008) che al vicario di Cristo in terra ha offerto a gratis diverse pagine di pubblicità sul giornale che ha fondato, e ne va tutto fiero. In entrambi i casi, l’infortunio della vanità precede dalla cattiva digestione di un mito: nel primo caso, fu il mito della Cavalleria a precipitare nel tragicomico il povero don Quijote de la Mancha; nel secondo caso, è il mito di Voltaire che intrattiene carteggio con Papa Lambertini ad aver giocato un pessimo tiro a Piergiorgio Odifreddi e a Eugenio Scalfari. D’altra parte, chi ha studiato il fenomeno della Cavalleria sa bene che di nobile aveva solo un leggero strato di retorica in superficie. In quanto a Voltaire, anche lì si trattava di un tentativo di autopromozione.
In capo al post ho riprodotto uno scorcio di pag. 9 del numero di Panorama del 19 marzo 1970, a firma di Guido Calogero. Se non sapete chi fosse, possiamo cavarcela in meno di tre righe: in quanto a onestà intellettuale, Eugenio Scalfari dovrebbe fargli una pippa; in quanto a vastità di sapere e a profondità di pensiero, Piergiorgio Odifreddi non ne vale un pelo del cazzo. E tuttavia anche Guido Calogero era un uomo: anche a lui scappò il sogno di parlare col papa, anche se si trattava solo di un espediente retorico per riempire la paginetta della sua rubrica. Ve ne risparmio il contenuto, a grandi linee dirò che si trattava di una peroratio a Paolo VI, che due anni
prima, con l’enciclica Humanae vitae, aveva gelato le speranze dei cretini che nel Concilio Vaticano II avevano intravisto chissà cosa. Vi offro solo il finale, per darvi la misura del ridicolo nel sogno di parlare col papa.