Magazine Poesie

IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA di Ninnj Di Stfano Busà Ed. TRACCE, Pescara, 2012

Da Lindapinta

Ninnj Di Stefano Busà

Il sogno e la sua infinitezza

La poesia è nel destino,

sinapsi ascensionale che sublima.

(Come a un cielo l’ala),

dagli abissi spicca il volo

e il mondo viene avvolto d’assoluto.

l’autrice

Prefazione di

Walter Mauro

La silloge di poesie di Ninnj Di Stefano Busà: Il sogno

e la sua infinitezza, la cui titolazione si configura come

una sorta di offerta al lettore, perché partecipi e si faccia

compagno di strada dell’intero percorso, si presenta come

una densa e sottesa rinascita di proposte, drammaticamente,

e gioiosamente, umane nel contesto del riscatto liberatorio,

che soltanto l’esercizio della parola, della lingua poetica, in

questo caso molto suadente e al contempo diretta, senza

sovrastrutture, riesce a realizzare. Non casualmente, la silloge

si apre con l’Evento che ha segnato inequivocabilmente la

vita e i destini dell’uomo, sì che da quel momento d’avvio il

discorso poetico – nella sua sottesa umanità di linguaggio e

di proposizioni – procede e si sviluppa come crinale e sentieri

percorsi con una nuova e umanizzata dizione, proprio da non

lasciar scorgere una ormai superata distinzione tra sostanza

e forma, attraverso la quale l’eloquio stesso va slargandosi:

“il mio sogno ha sassi e licheni/ sfrangiati dal troppo rinascere/

fiore e radice./ Ora è seccume di ramo”.

Ciò vuol dire che il doppio tracciato dell’aspettazione

e della speranza, alla parvenza così distanti e univoci al

contempo tra loro, si apre a prospettive coniugate tra fissità

e movimento, un percorso che consente a questa raccolta di

esibirsi vincente nei confronti di tanta produzione di oggi:

“Rinascere poi è come tentare/ quel poco che non conosciamo,

la verità/ è sentiero inesplorato, sasso duro che divide,/ eppure à

chiaro il giorno, c’è tanta luce intorno”.

È la milizia terrena che combatte la sua impietosa

guerra conto la fuga del tempo, nella dimensione di quelle

scatole cinesi, che pur nella loro ricorrenza, continuano a

configurare la sostanza concreta di quel tempus fugit che non

è solo quella pura e semplice riflessione che cronologia e

storia ci hanno tramandato, bensì molto di più, nell’azione

coinvolgente che riguarda l’intero e integro percorso del

nostro diurno tracciato, compreso dall’equazione vita/morte

fino all’ultimo grido di difesa. “Così la morte, una lingua

muta/ che sbianca carne e sangue,/ fin dove scorre il soffio della

linfa,/ a sciame cattura il brusìo tenace della vita”.

In questa silloge risulta essenziale, fondamentale in

termini non equivoci, quel moto circolatorio che è forse

troppo riduttivo definire -tempo-.

Felicità o via di fuga? (la definisce l’autrice), la suggestione

di questi versi è tutta in questo dilemma duro e implacabile,

che richiede tentativi continui e tenaci uscite di sicurezza,

ardue da recuperare e ancora più tenaci da aprire: “Si compie

poi la dolcezza che inonda,/ la vanità della parola che non

cede/ alla mestizia rassicurante della carne,/ al rosso del sangue

e al miele/ fino al colpo finale che toglie e non dà,/ al respiro

vicino alla resa breve e convulso/…/

Il fantasma poetico, sempre così vivo e presente, serve

a consentire scadenza d’ordine all’interezza del quadro,

altrimenti lacerato e slabbrato: in quest’ultima esigenza,

il ricorso ad una lingua poetica semplice e naturale, come

sempre si addice alla poesia vera e autentica, è presente,

restituisce bagliori e slanci, ombrosità e ritrosìe ad una

scrittura che con coraggio va ad occupare uno spazio non

indifferente nel diorama di oggi, non soltanto per il perenne

discorso sull’uomo, ma anche sulla preziosa consuetudine

di restituire alla parola poetica la sua più vera, autentica e

alta connotazione. “La vita che viene, dici, non è scritta/ per

darci la facoltà della meraviglia,/ la fioritura fuori stagione,

l’anelito/ dell’aquila alla rupe” e ancora: “Qualcosa poi resta a

segnarci il silenzio,/ un fiore reciso o la sera che ci lascia/ come

un pensiero mai nato, (solo sognato)”.

Walter Mauro

Non che io conosca la geometria dell’aria

il volo del coleottero sul ramo,

dentro la morte dell’estate è il suo flagello,

la linea di demarcazione, la palude stigea

la foglia che marcisce e alimenta la notte

incombente, senza volto e nome.

Una luce, la nostra, che ha il debito dell’usura,

l’orizzonte sempre lontano.

Possediamo il godimento, il ramo stento,

la fitta del rovo: ogni vascello naviga a braccio,

lo scafo affonda, eppure sfaglia la memoria,

la sua radice mortale di lussuria.

Rinascere poi è come tentare

quel poco che non conosciamo, la verità

è sentiero inesplorato, sasso duro a spezzarsi,

eppure è chiaro il giorno, c’è tanta luce intorno.

Respirami in limine di campo,

dove le spighe non maturano,

regalami lo strappo dell’abbraccio,

il fiore d’innocenza, la melagrana spaccata

al solleone.

Lo sfaglio della terra ci rende calvi di vento,

col ritmo di meraviglia pronto a morire,

ad offrirsi alla falce della carne,

alla forma che cancella tutte le altre forme

nella minuscola gola di farfalla,

dove la minima distanza è dolorosa,

taglia in due il seme e la sua storia:

la visuale delle cose diventa già memoria.

Poggio le mani sul tuo cuore

sono falce e spiga che fiorisce e lenisce,

m’invento l’ostinazione delle pieghe,

mentre i tuoi ventricoli sanguinano,

anche la vita con le sue distanze minime,

è un giro di valzer scordato.

La tenebra avanza

col passo stanco del plotone senza obbedienza,

in ordine sciolto o in fuga,

come dai giorni di dolore o dall’inverno

che non ha fuochi per scaldare.

Così la morte, una lingua muta

che sbianca carne e sangue,

fin dove scorre il soffio della linfa,

a sciame cattura il brusio tenace della vita.

Anche il giorno si oscura,

senza sussulti, senza saziare la fame

che indaga tutte le varianti del pasto.

Possediamo una sola geometria di sguardi,

un germogliare labile di cieli,

che incrocia flussi migratori,

ancora col fiato sul becco,

quando la morte li attende al varco sulla rupe,

dove il viaggio si fa memoria d’aria,

sorriso di radici inquieto,

alghe e rocce che portano in mare aperto.

E non è che io cerchi l’altra metà del cielo,

un ritorno d’erba dell’età primeva,

Il mio sogno ha sassi duri e licheni

sfrangiati dal troppo rinascere

fiore e radice. Ora è seccume di ramo.

Nell’incavo delle tue braccia un sussulto,

veglia che induce l’un l’altro

a godere dell’amore,

nell’attesa del tutto compiuto che artiglia

la minima gioia, l’edera tenace della storia,

sono onda di tenerezza sul volto.

A tratti, ci restituisce l’innocenza, l’amore,

mentre calziamo l’ipotesi del volo,

ma non abbiamo ali che ci spingano

in mare aperto, lì dove si compie

il miracolo di luce, lo spoglio della vita

che ti respira e ti perde, come il sole d’inverno…

In un minuscolo filo d’erba

tutta la dolcezza che ci resta.

Respiriamo la vita come zolla dopo la mietitura,

mordiamo l’aria secca, la solitudine

del vento, fino a sperderci nel volo breve

di una rondine di mare.

La solitudine, liscia come gli anni

senza vento e bocci, solo radici nodose

e il groppo in gola che ricorda

il pesce sott’acqua, la sete sulla pelle.

Si compie poi la dolcezza che inonda,

la vanità della parola che non cede

alla mestizia rassicurante della carne,

al rosso del sangue e al miele,

fino al colpo finale che toglie e non dà,

al respiro vicino alla resa breve e convulso.

Ho radici che percorrono linee d’acqua,

come il vaso di Pandora tendo a scoperchiare

la vena del cuore, la perfezione di un ritorno,

la nostalgia del germoglio sotto il sasso.

E non vi è viaggio che inizi con altro viaggio,

binari in disuso, sentieri inconoscibili,

disavanzi da poveri guitti.

Morde la fame come un giorno senza requie,

sfaglia vite logore,

un declino che ha l’attraversamento dello Stige,

la caparbia bellezza dell’inverno

dentro la morte disseccata e scabra.

Ogni gesto si connette all’altro,

ogni vocalizzo-parola entra nella memoria,

la perfora, come lume che ristora la tenebra.

Dalla geometria del fango origina

la nostra prima sete.

Ci lasciamo alle spalle

un debito di radici e foglie,

le nostre prime schermaglie d’amore,

un sistemico accavallarsi di germogli,

senza la facoltà di disvelarsi, di aprirsi

in boccio alla faglia del cuore.

Resta un desiderio inesplorato

quel cercarsi, quell’esplorarsi

con la caparbietà della logica,

che s’apre all’ostinazione dell’autunno.

Cancelliamo i giorni dal calendario,

ci offriamo alla dimenticanza.

La vita che viene, dici, non è scritta

per darci la facoltà della meraviglia,

la fioritura fuori stagione, l’anelito

dell’aquila alla rupe.

Ogni cosa è realtà di assenze:

valori nominali azzerati,

persi i contatti minimi con la felicità,

ci resta la tracotanza dell’asfalto bagnato,

la grandine o l’immagine crepuscolore,

il sole a perpendicolo.

Ritmi tentacolari,

mannelli di dolore come giaculatorie.

Intercediamo a comando, sommando l’ordine degli addendi

i dividendi: la dimensione ultima strapiomba,

cerca gli appigli necessari

per trattenere le cose mai avute.

Qualcosa poi resta a segnarci il silenzio,

un fiore reciso o la sera che ci lascia

come un pensiero mai nato, (solo sognato).

Solo un abbraccio chiesto e ridato,

un piccolo legame amoroso,

la folle mestizia della notte a rischiarare

il biancore delle crepe, quando il buio

è senza riparo, una distanza dal solco

o dal binario che scinde la vita,

l’ostinazione del morso nella carne.

Ogni cosa è inizio alla sua fine,

un sole che ride al mattino e cerca

la sua massima concentrazione

nelle nuvole alte della stratosfera.

Nomadi e gitani, senza riparo

né codice di comportamento.

La nostra casa il vento, la necessità

di essere fedeli al poco come insetti

di un tempo limitato, di una gioia ostinata

che si ramifica fino a lacerti d’acque sotterranee.

La fatica del viaggio ci rende

corpi inospitali all’amore.

Azzardi, sul filo del tempo sospesi.

Allo sferragliare dei treni,

l’ultimo addio si ripete e stordisce.

Spariscono i vagoni nella ressa,

col fazzoletto sventolato in aria,

– più nulla – una canzone slitta

nei pochi metri quadri della nostalgia…

Si resta ancora un po’ a infilare

le parole non dette,

il crescente sobbalzo,

il soprassalto nelle vene.

Si dirada come un vento che preme

la voce rotta dal silenzio

e incontra il profilo sfuggente dell’altro

ad inseguirla.

Assenza o afasia, il viaggio

ha suoni stonati, vene di terra e fosforo.

Nel gorgo del pensiero nessuna certezza

va oltre lo splendore azzurrino degli occhi.

Quando ingemma la melagrana, è ròsa

dal buio anche la valle sfogliata dalla tramontana.

Presagio di malinconia il riflesso ambrato,

sulla solitaria cuspide del borgo.

Dalla scogliera che taglia a ponente,

ogni profilo è una mobile palma

che lambisce orli di mare.

Ogni sogno ci lascia dietro di sé

scie di felicità incompiuta.

Per trattenerla, inventiamo

oniriche e affrante consolazioni.

Tutto ostinatamente insiste, dai vagheggiati amori

alle viuzze del borgo

a tastare i suoi prodigi, la percezione viva

di essere vanità che gonfia le vene.

Ora mi doni la rischiarante certezza

del tuo canto, oh terra,

compensi il turbine di vita

con l’inquieta levigatezza di un dolore sordo,

più cupo dell’immenso vuoto che lasci.

Questo mi porta il mare: la liturgia

del suo silenzio, la pacatezza dell’umida sera,

il suo cobalto.

Eppure, niente ci accomuna, o tutto:

c’insegna la luce il suo morire,

di una pelle nuova abbiamo nostalgia,

o di un approdo senza agguati che ci stringa

al suo infinito.

Mi adombra la semina degli uragani,

il confuso grondare di cascata sulla pelle.

L’offerta è come un graffio che tormenta

e acquieta, se appena accosti alle labbra

l’incomprensibile preludio del sangue,

il bicchiere col sapore del sale.

Incalza già il silenzio, ad evocarlo,

è tempo che ha schiuso i suoi candidi gigli.

Ci pensano gli anni a puntellare

l’agguato delle ali, la liturgia

che imporpora il sonno alle ortiche.

Vi è un dolore talvolta sottile che spacca

le argille, spande i suoi silenzi

nei grumi, come il vento tra i rami.

Vi rovista il cuore nella follia degl’interludi,

ha sandali di rovi, tutta la solitudine

degli oceani, qualche seme tenace di orgoglio

a incarnarsi al libeccio, a ferire

il disavanzo della carne che deterge il dolore.

È sempre un pensiero dominante quello

che svia l’erotismo da bocche sigillate,

da maschere chiuse nella temibile misogenìa

del cuore.

La percezione è quella che fiorisce

dall’immenso vuoto, la compensi col poco

“dare e avere”, come una morte sospetta

che vigila quieta il tuo respiro e sa attendere.

Non vi è maestrale che non gonfi

i silenzi notturni, i viottoli stretti,

l’edera sui muri.

Tu, annegata nell’oceano dell’anima,

sei solo creatura d’infinito,

alba che si oppone al turbinio dei giorni,

al turbamento delle minime cose, alle assenze.

Il mondo e a lui difforme la morte

và sfuggendo come rosa di maggio

sui capelli.

Spenta è la memoria dei giovani corpi distesi,

l’acuminato grido degli uccelli,

la beltà del fiore e delle aurore

che imporporano la pietra della luna,

il sonno misterioso su rocce di arenaria.

Qui canta l’ultimo passero,

esulta la lepre, s’infiamma come amore

la città eccelsa con nuvole di pianto:

ogni cosa duole o si fa simulacro di dolore,

ombra furtiva, immenso fiume lungamente

atteso dal suo mare.

Oh tu dispiùmati come stella polare

sull’orlo di un pozzo abissale,

terra,

continua a lastricare di morti la breve distanza

tra noi e la vita.

Tu, cielo che conti le stelle, solleva lo sguardo

alle debite lontananze, tu che appari e scompari

dal fragile volto corrugato dei cipressi:

tu, solitudine desolata, incolmabile orizzonte

dei nostri desideri: fosti l’oriente e l’occidente

del mondo, la piuma docile e levigata dei sogni,

tu, terra promessa, zenith delle contratture,

delle offese, delle festevoli voci.

È tempo di monologhi, di trasparenze,

di venti incorrotti e incorruttibili

che schiantano implacabili i fortilizi.

Non può che giungere da te l’inestinguibile

oblìo.

Il cielo penetra a fatica nell’azzurro,

lento e perseverante come una frana a valle,

ad esso si avventa il precipizio d’ali,

nella sommossa vanità della grandine.

Oltre l’azzurro delle cime, le nubi incoronano

altri mondi, migrano gli uccelli

dal lungo sonno da cui rinasce l’abbrunata stagione,

l’erranza o l’avventura degli steli e dei rami,

le radici della schiarita e poi lo schianto.

La notte ha il passo sciroccato del sonnambulo,

filari d’anime in catena:

ognuno col suo fardello di sogni,

di pietre aguzze e afa,

ognuno scende verso il fiume

con la sua avventura, il suo refrain molteplice

di felicità negata, di neve e dolore.

La notte spiana l’erta, è difforme nel ricordo

l’immagine del giorno, tace il karma,

si riavvia la recrudescenza ambigua della notte

che ti denuda e risorge,

come un dio minore dalla sua croce.

Ognuno sa, ognuno vede il florilegio

farsi fosforo e porpora, svagato amore,

come di passeri al loro cielo agostano.

La notte deterge il becco degli uccelli,

li avvia alla schiusa delle meraviglie,

a rive senza riparo, senza percettibile pietà.

Si resta ormai insensibili alla solitudine

che dispiuma i nembi odorosi di memoria,

Nulla di ciò che traspare è riconducibile

alla felicità, eppure tace

o muove al delirio la linfa dei giorni,

misura la pienezza del battito alle tempie.

Niente esce illeso.


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