Gli Dei Gemelli della Guerra, divinità venerate in tutto il Sudovest, tra i Pueblo, presso cui hanno origine, e presso i Navajo, gli Apache e i Kiowa, sono figli del Sole e, nonostante liberino l’umanità dai mostri primordiali, devono poi allontanarsi perché creatori di disordine. Anche un altro creatore di caos per antonomasia è figlio del Sole: il clown cerimoniale, variamente chiamato Testa di Fango, Koshare o Kossa, che è in rapporto con la morte ed è talvolta designato con il nome di Folle del Sole. Esiste una precisa opposizione tra la donna e il sole: la ragazza alla sua prima mestruazione non può vedere il sole, perché potrebbe spegnerlo e l’eroina Hidatsa Seta di Mais sconfigge il Sole che voleva distruggere i suoi campi (Bowers 1963).
Secondo l’analisi di Lévi-Strauss (1971:343-61) nel registro dei trofei mitici il pelo pubico femminile connota la disgiunzione del sole e dell’umanità, mentre lo scalpo connota la loro congiunzione. Un giovane Menomini si vendica del sole che gli ha bruciato un bel mantello di castoro decorato con aculei di porcospino dalla sorella catturando il sole con un laccio fatto con un pelo pubico della sorella stessa. In un’altra versione egli cattura il sole mettendo il pelo pubico nel laccio della trappola come esca (p. 348). Avevamo già constatato che c’era un cattivo rapporto tra la ragazza e la donna mestruata e il sole, che può, variamente, essere indebolito dalla donna o accecarla. Lo scalpo è un mediatore positivo di fronte al sole e il pelo pubico un mediatore negativo: il primo congiunge, il secondo disgiunge. E la netta preferenza dei miti per i mocassini dimostra che essi cercano soprattutto la mediazione del rapporto fra l’uomo e la terra per mezzo di capi di vestiario ricamati. D’altra parte questi stessi mediatori si trovano a distanza ineguale: lo scalpo proviene dal nemici, cioè da lontano, i peli pubici provengono dal proprio corpo o da quello di una donna vicina, mentre il ricamo di aculei occupa una posizione intermedia: fatto da una donna, ma con materiale lontano.
Il potere della donna e quello del sole devono restare alla giusta distanza, scrive lo studioso francese, dopodiché la donna può anche essere mediatrice tra gli uomini e il sole e l’astro può diventare dispensatore benefico di calore fecondo. Un mito dei Chipewyan-Denè di lingua Atapaska, che abitano le regioni del Subartico canadese, narra come il sole sorgesse e tramontasse quasi subito. Vi erano due indiani, fratello e sorella, che vollero porvi rimedio. Un giorno la sorella, che aveva teso le sue trappole per le linci sugli abeti della foresta vide che il sole era rimasto preso e stava per soffocare. Corse con il fratello per impedire all’astro di fuggire e quello promise di allungare la sua corsa e di diffondere nuovamente calore e vita; essi allora lo lasciarono andare.
La cosiddetta Danza del Sole, che comprende una serie di cerimonie simili che gli antropologi convenzionalmente chiamano in questo modo, derivando l’etichetta dal nome del rito Lakota Sioux detto “danza fissando il sole”, era l’unica cerimonia cui partecipasse tutta la tribù e si eseguiva in estate, generalmente in prossimità del solstizio e pur essendo in stretta connessione con i grandi ritmi stagionali essa era collegata anche a certi avvenimenti della vita degli individui. Presso i Piedi Neri solo una donna poteva indirla e tra gli Arapaho e i Cheyenne, che praticavano la forma più completa e antica, il diritto di celebrare la danza doveva essere “acquistato” tramite il coito rituale al chiaro di luna tra il predecessore titolare, detto il “nonno” e la moglie del successore, detto il “nipote”. Durante il coito il “nonno” trasferiva in bocca alla donna che lo sputava in bocca al marito il suo “seme”, un pezzo di radice, in genere la rapa selvatica, che era anche simbolo della rapa che tappava il buco nel cielo da cui precipitò su questo mondo la Progenitrice o Donna del Cielo, eroina di un ciclo mitico di diffusione vastissima, dalla Costa Atlantica alle Pianure (Dorsey 1903). Alla danza del sole un vecchio, che gridava il suo annuncio all’intero cerchio del campo, avvertiva i giovani di divertirsi; diceva alle donne di acconsentire se venivano avvicinate da un giovanotto, perché questa era la loro occasione e raccomandava ai giovani di non picchiare le mogli o arrabbiarsi con loro e di non essere gelosi alla danza; essi potevano far piangere una donna, ma sicuramente nel frattempo lei avrebbe pensato a qualche altro uomo. A tali danze le vecchie invitavano le ragazze a divertirsi con gli uomini (Kroeber 1983).
Per tutto il tempo della cerimonia che durava vari giorni i partecipanti osservavano il digiuno e spesso si astenevano anche dal bere (i Cree chiamavano il rito “danza senza bere”), come accadeva talvolta alla ragazza pubere e come faceva il cercatore di visioni. Il culto dedicato al sole aveva un carattere equivoco, perché se da un lato si supplicava l’astro perché fosse propizio e concedesse bambini robusti e facesse moltiplicare i bisonti, dall’altro lo si sfidava. Uno degli ultimi riti era una danza sfrenata che si prolungava fino a notte alta, chiamata dagli Arapaho “partita giocata contro il sole” e dai Gros Ventres “danza contro il sole” e alla biforcazione del sacro palo della capanna circolare della danza c’era il Nido dell’Uccello Tuono, che si supplicava perché concedesse i temporali estivi e placasse la siccità. Rappresenta il potere maschile del tuono e del fulmine, mentre il potere femminile è presente con il bastone da scavo per piantare il mais (anche se molte tribù hanno abbandonato da tempo l’agricoltura questo bastone è conservato per la raccolta dei tuberi selvatici) (Lévi-Strauss 1971:189). La Danza del Sole è anche in connessione con le mestruazioni: l’ “acqua soave” colorata di rosso con le ciliege selvatiche che gli Arapaho distribuivano alla fine della cerimonia rappresenta il sangue mestruale, così come il sangue che scorre dalle ferite che i guerrieri si infliggono per costringere il sole a essere meno ostile (Dorsey 1903:22, 35, 177-78). “Rosso è il colore del sole” dice un saggio Sioux, ma questo rosso maschile è il corrispondente del rosso femminile. Qui gli uomini danzano sfidando il sole, ma in una capanna coperta da frasche che è la riproduzione in grande della capannuccia mestruale. Anche la ragazza pubere e la donna mestruata dovevano stare lontane dal sole e in molte tribù questo era un periodo di digiuno più o meno severo. E’ una complessa catena di simboli che cercano di regolare l’alternanza quello che oppone i termini:
VitaCibo/CoitoFertilitàSole/GiornoEstatePlenilunio
MorteNon Cibo/Non CoitoSterilitàLuna/NotteInvernoLuna Nera (nuova).
Tuttavia, come abbiamo già visto nei miti iniziali è dalla mestruazione che nasce la fecondità e questa idea viene ribadita nel mito Navajo in cui la grande divinità Changing Woman (Donna Cangiante) viene messa incinta dal Sole: In questo momento sorse il sole e le inviò un raggio: Lei doveva essere stata mestruata quando ciò avvenne, afferma il mito, perché diventò incinta (Reichard 1983:29). E’ evidente che i Navajo avevano capito tutto al rovescio!
I Sioux, come gli altri indiani, credevano che l’elemento maschile, nutrito dal sangue mestruale, desse vita al feto e non avevano alcuna idea della presenza dell’ovulo. Così sembra che anche sotto l’aspetto biologico il contributo maschile fosse considerato attivo e quello femminile passivo Secondo la Deloria il sangue mestruale dava alla donna una specie di temporaneo potere, una qualità wakan. Questa qualità non era considerata come impura ma piuttosto come incompatibile con il potere dell’uomo di medicina. Il conflitto era caratterizzato dalla parola ohakaya, “causare un blocco o un garbuglio”. Per questo le donne erano separate dagli uomini durante il periodo mestruale (De Maillie 1983)
Nel racconto che fa Black Elk della Cerimonia della Pubertà della fanciulla Oglala, detta anche cerimonia del Bisonte Maschio questa ambivalenza continua. Secondo la tradizione, la cerimonia fu insegnata dai bisonti a un visionario e celebrata con una bambina, che alla fine della cerimonia beve da una ciotola che contiene dell’acqua e ciliege, oppure polvere di amarene, che simboleggia il sangue mestruale e dopo di lei tutti i presenti partecipano alla comunione (Brown 1975:119-126). La bambina si chiama Donna Bisonte Bianco Appare, nome molto simile a quello della Donna Vitella di Bisonte Bianco (Pte Ska Win) che è l’eroina Lakota donatrice della Sacra Pipa. Come la ragazza al menarca ella è intoccabile sessualmente: nel mito il guerriero che tenta di aggredirla sessualmente viene ucciso da serpenti e trasformato in un mucchio d’ossa. Le varie versioni dicono che essa era nuda, vestita solo dei suoi lunghissimi capelli; alcune la descrivono anche come rossa (Walker 1980, Powers 1977). Il segno “del bisonte”, che mostra la maturità sessuale di una donna Sioux e Cheyenne era la scriminatura dei capelli divisi in centro alla testa colorata di rosso. Questa coloritura viene fatta per la prima volta alla cerimonia della pubertà. E’ evidente che si tratta della vulva e come tale essa è anche feconda. La dea Donna Vitello Bisonte Bianco porta la Sacra Pipa e i riti che fanno moltiplicare le persone e i bisonti ai Lakota. La pipa, che unendo il fornello, femminile, al cannello, maschile, rappresenta un coito mistico, aveva tra le sue decorazioni, prima di essere sostituiti con crini di cavallo, capelli di donna. Capelli di donna ornavano in parte le camice magiche dei capi e peli pubici femminili i gambali e i mocassini. Erano forniti da donne della famiglia, spesso le sorelle e servivano a proteggere il possessore. Come abbiamo visto in una serie di miti un giovane prende al laccio il sole con un pelo pubico fornito dalla sorella, mentre i guerrieri in guerra dovevano cercare di evitare i sentieri battuti e comunque combattere gli influssi nocivi di chi era passato prima (in territorio nemico) spalmandosi le gambe con medicine e incantesimi (Lévi-Strauss 1971:324-26, 338)). I disegni che le donne ricamavano sui mocassini dei loro uomini erano incantesimi protettivi tracciati con aculei di porcospino o peli d’alce, animali magicamente potenti e in seguito con le perline, ma solo dopo averle “ubriacate”, cioè mescolate tra loro prima di cominciare il lavoro, per togliere loro l’influsso dei bianchi. Il sangue mestruale peraltro era considerato un ingrediente potente nelle magie d’amore (anche nella magia occidentale).
Riferimenti
Bowers, A.W. Hidatsa Social and Ceremonial Organization, Lincoln, 1963
Brown, E. J. La sacra pipa, Milano. 1975
De Mallie, R.. Male and Female in Traditional Lakota Culture, in P Albers e B. Medicine, The Hidden Half. Studies of Plains Indian Women, Lanham, MD, 1983
Dorsey, G. A. The Arapaho Sun Dance: The Ceremony of the Offerings Lodge. Field Columbian Museum Publication, no. 75. Chicago, 1903.
Kroeber, A. The Arapaho, Lincoln. 1983
Powers, W. K. Oglala Religion, Lincoln, 1977
Reichard, G A. Navaho Religion. A Study of Symbolism, Tucson, 1983.
Walker, JR.: Lakota Belief and Ritual. Lincoln, 1980