UN GIORNO MI DIRAI COME HAI FATTO. LASCIAMI SPERARE CHE LO FARAI.
Gli errori si pagano, dicono. Be’: anche le vacanze.
Sei sensibile come un sismografo, ti accorgi del cambiamento d’aria, se ci spostiamo, se cambiamo luogo, temperatura, setting. Ma tutti i bimbi sono così, no? C’era già da stupirsi che la prima notte ce l’hai condonata: una casa di legno, una camera nuova, l’aria secca insufflata da caloriferi troppo insistenti.
Va messo in conto: anche se la casa delle vacanze è gentilmente offerta dai nonni, anche se non ci sbattiamo a portarvi sulle piste, anche se i costi si limitano a benzina, caselli e qualche pasto fuori, il vero conto lo presenta la piccola (sì, tu), in termini di improvvisa intolleranza alla posizione supina. Che quasi quasi un pensierino ce lo fai: meglio una vacanza in montagna senza più dormire, o dormire senza più partire?
Mi spiace, credimi, vederti soffrire così: a tratti ho pensato che un fantasma ti avesse disturbato quella notte a Courmayeur che poi tuo padre è rimasto lì, ostaggio della pietà. E, da allora, hai paura. Più spesso, invece, ritengo che ci stai semplicemente prendendo per il c. E così ti lascio strillare: capacità che si maturano solo dopo anni. Mentre ti addestro al sonno anch’io mi addestro a resistere ai tuoi pianti. Al terzo figlio si raggiunge una discreta abilità.
Dopo due ore secche, il simpatico giorno della befana, ti sgolavi ancora come i primi cinque minuti. Con quella tua energia avrei potuto farmi un triathlon. Tu, in effetti, l’hai fatto: corsa su e giù per il lettino, pedalate di gambe sospese dalla ribellione, vasche in valli di lacrime. Ai piedi del letto ho trovato una pozza viscosa: muco misto al pianto. Non ho avuto pena. Ti ho solo cambiato maglia (body) a metà gara, avevi una patacca bagnata grande quanto un bavaglino, da brava sportiva, come quei corridori con il petto intriso di sudore: solo che il tuo era pianto. In capo a quel tempo infinito, speso avanti indietro inutilmente, ti ho preso nel lettone e amen. Sicura che così, di certo, non avresti imparato NULLA.
Ma il vero smacco, la grande sorpresa, mi arriva il giorno seguente: sono sicura di averti lasciata nel lettino con le sbarre (quello solito dove dormi di giorno, in camera nostra). Avanti indietro, la solita spola. Intingo il naso nella camera solo per l’ennesimo, vano “Sttt, dormi!”, la tazza col mio meritato caffè è già pronta in cucina. Chiudo la tua porta, abbasso la maniglia. Sono sicura che è andata così.
Quando, sette minuti dopo, torno a sedare il pianto che non è cessato, trovo che sembri più vicino del solito. Ti immagino tutta protesa attaccata al fondo del lettino, in piedi, che ti sbracci. Così sporta che la tua voce è proprio vicina vicina.
Abbasso la maniglia, apro piano: e tu sei in piedi, dietro la porta.
“Cosa ci fai qui?” è la prima cosa che mi viene da dire. Seguono pensieri al limite del paranoide, e a velocità disumana: “È tornato Mathias e non me ne sono accorta. L’ha presa dal lettino e poi è scomparso.”
“C’è davvero un fantasma.”
“È arrivato un alieno.”
“Sono rincoglionita, l’ho tirata fuori io prima e non me ne sono accorta. Ma ti pare che estraggo la bambina prima del Santo Caffè?”
Intanto, lentamente, sale a galla il sospetto più realistico che, non si sa come, la piccola sia uscita da sé. Ovviamente.
“Ma cos’hai fatto? Ma scherziamo??? Ma come ti permetti?”
In un attimo sono ridotta a un brandello. Un sordo ricordo della mia autorevolezza. In pratica non conto un c.
La sola cosa che ho saputo fare è rimetterti dentro: “Dai, adesso fammi vedere come hai fatto!”
Mi sono seduta sul mio letto e ho aspettato.
Invece tu ti sei messa giù, sdraiata, il culo per aria. E ti sei addormentata senza più colpo ferire.
Allora ho capito che non ho capito niente.