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Il Sud Sudan sull’orlo della crisi

Creato il 04 marzo 2015 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Il Sud Sudan sull’orlo della crisi

Il 15 dicembre 2014 la guerra civile in Sud Sudan ha compiuto un anno. Salva Kiir, diventato il primo presidente del Sud Sudan nel 2011, appartenente all’etnia Dinka (come il 38% della popolazione del Sud Sudan), ebbe un ruolo di primo piano nella lotta per l’indipendenza come leader militare dell’Esercito sudanese di liberazione popolare (SPLA). Il suo avversario, Riek Machar, appartenente al gruppo etnico dei Nuer (17% della popolazione), è stato vice-presidente fino al luglio 2013, quando è stato silurato, assieme alla maggior parte dei membri del gabinetto, da Kiir, che lo ha accusato di avere complottato contro di lui. Machar aveva dato voce ad un malcontento diffuso nei con- fronti del governo di Kiir, accusato di aver fallito nel fermare il tribalismo e la corruzione del paese, di aver portato avanti piani politico-economici inefficaci e di non aver distribuito equamente i frutti dell’indipendenza.

La comunità Nuer, inclusi i membri del Movimento di liberazione del popolo sudanese (SPLM) e i soldati dello SPLA, hanno appoggiato in pieno le ambizioni presidenziali di Machar, soprattutto dopo la sua rimozione dall’incarico di vice-presidente e dopo il licenziamento del Governatore dello stato di Unity (da dove Machar proviene), Taban Deng. Una lotta di potere interna al governo si è tradotta, così, in uno scontro armato, in cui le divisioni etniche vengono sfruttate a proprio vantaggio dai rivali per mobilitare il sostegno della popolazione. L’esercito di liberazione del popolo del Sudan, un’entità che avrebbe dovuto essere l’emblema dell’unità nazionale, si è frammentato anch’esso lungo linee etniche e si è trovato di fronte ad un compito impossibile: difendere l’integrità di un paese grande quasi quanto la Francia e privo di infrastrutture fonda- mentali e di istituzioni politiche funzionanti. Queste ultime, assieme all’economia, sono piombate nel caos, non appena è scoppiata la nuova guerra civile.

Con il passare dei mesi, una porzione sempre più ampia della popolazione civile è stata coinvolta negli scontri; le uccisioni su base etnica sono diventate sempre più frequenti, con episodi di inaudita violenza. Numerose città sono state distrutte e rase al suolo. Human Rights Watch ed altre organizzazioni umanitarie hanno invocato l’embargo immediato sulla vendita di armi al Sud Sudan, denunciando entrambe le parti in conflitto per crimini di guerra. Secondo le ultime stime ONU i morti sono più di 50 mila; 9 milioni di persone hanno dovuto lasciare la propria casa e di questi 479 mila si sono riversati negli stati vicini, come Etiopia, Uganda, Kenya e Sudan; più di 12 milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari, mentre si calcola che almeno 12 mila bambini siano stati costretti a imbracciare le armi nel conflitto. Chi è rimasto in Sud Sudan si trova a fronteggiare il rischio di epidemie di colera e malaria, assieme a quello di un’imminente carestia, finora evitata solo grazie a un massiccio intervento umanitario.

I negoziati tra le parti sono iniziati a gennaio 2014 ad Addis Abeba, sotto gli auspici dell’organismo di integrazione regionale del Corno d’Africa (IGAD). Il 23 gennaio e il 9 maggio 2014 sono stati firmati due accordi per la cessazione delle ostilità, rimasti però sulla carta. Durante le trattative, infatti, le armi non si sono mai fermate, soprattutto nell’Alto Nilo, una delle regioni chiave per l’estrazione di petrolio, ora passata dai 350 mila barili al giorno a soli 160 mila. L’economia, basata sulle esportazioni di greggio, è paralizzata; cosa che ha spazientito gli investitori esteri, in primis la Cina, stanca di vedere il proprio denaro e le proprie infrastrutture sotto assedio. Anche gli uomini di affari del Sud Sudan, inclusi i membri della diaspora rientrati al momento dell’indipendenza, stanno nuovamente lasciando il paese.

L’ultimo accordo è stato siglato il 7 novembre nella capitale etiope, con l’impegno di mantenere una tregua e concordare entro 15 giorni la nascita di un esecutivo d’unità nazionale, in vista di future elezioni. Le prospettive di una pace nel breve termine sono molto esigue, dal momento che entrambi i contendenti non sembrano essere intenzionati a cedere e che l’intervento del- la comunità internazionale è stato finora insoddisfacente. Salva Kiir è forte dell’appoggio del Presidente sudanese Bashir e di quello ugandese Museveni, il quale gli ha offerto pieno sostegno militare. La missione ONU (UNMISS), presente sul territorio dal 2005, a dispetto dei suoi sforzi, non è vista di buon occhio né dai ribelli né dal governo ed ha quindi scarso potere sull’andamento delle trattative.

Gli USA e la Cina

La nascita di un Sud Sudan indipendente, è stata, fin dall’inizio, appoggiata fortemente dagli USA in maniera bipartisan. I sostenitori dell’indipendenza non si trovavano solo alla Casa Bianca ma anche al Congresso, dove la maggior parte dei rappresentanti parteggiava per la popolazione cristiana del Sud, sostenendo il loro diritto a liberarsi dal giogo dell’oppressore del Nord, in maggioranza arabo e musulmano. Sia il Presidente Bush che Obama inondarono il paese con miliardi di dollari, investendo nelle istituzioni governative e nelle infrastrutture, oltre che nell’addestramento delle forze militari e nel settore dell’istruzione. Seguirono, poi, le facilitazioni per gli investimenti americani nel paese e l’apertura del mercato USA alle importazioni dal Sud Sudan esenti da dazi. La nuova nazione avrebbe, si sperava, rafforzato la sicurezza nazionale degli USA, iniettando una dose di democrazia nel cuore dell’Africa e promuovendone la stabilità politica. Nello specifico, il Sud Sudan made in USA avrebbe rappresentato un bastione democratico contro il presidente sudanese Omar al Bashir, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità commessi in Darfur e accusato di aver dato rifugio ad Osama Bin Laden.

Mentre gli USA incrementavano le attività militari, potenziando il numero delle basi e promuovendo interventi sia diretti che indiretti, la Cina si faceva strada sul continente attraverso il soft power (aiuti, commercio e progetti infrastrutturali), divenendo presto l’attore dominante tra le potenze estere. Dopo aver investito 20 miliardi di dollari in Sudan, Pechino si vide portar via dal neonato Sud Sudan il 75% delle fonti petrolifere. Poco dopo, però, ad aprile del 2012, il neo Presidente Salva Kiir si recò in Cina per brindare con Hu Jintao ed assicurarsi imponenti investimenti nel settore delle infrastrutture e in quello petrolifero. Due anni dopo, la National Petroleum Corporation cinese, con una quota del 40%, è la prima azionista della Compagnia dell’Alto Nilo, il più grande consorzio petrolifero in Sud Sudan. La Cina ha ormai sorpassato gli USA, diventando il primo partner del Sud Sudan con 198,5 miliardi di dollari in scambi commerciali nel 2012, contro i 99,8 miliardi degli USA. Nei primi 10 mesi del 2013 la Cina ha importato quasi 14 milioni di barili dal Sud Sudan, che costituiscono circa il 77% della produzione di greggio del paese e il doppio della quantità importata dalla Nigeria. L’importanza strategica del Sud Sudan per la Cina è evidente, al punto che Pechino ha inviato circa 40 milioni di dollari di armi alle forze armate di Salva Kiir e per la prima volta nella sua storia parteciperà a una missione di peacekeeping inviando 700 soldati in Sud Sudan nell’ambito della missione Unmiss.

I membri dell’Esercito di Liberazione popolare avranno il mandato di proteggere i lavoratori stranieri impiegati nel settore petrolifero. Ad eccezione di un piccolo contingente inviato in Mali nel 2013 per proteggere un gruppo di ingegneri cinesi impegnati in progetti di cooperazione, mai la Cina era intervenuta così pesantemente negli affari di un paese straniero. Con tali mosse, Pechino si è attirata le critiche della comunità internazionale e delle organizzazioni umanitarie, soprattutto per la vendita di ingenti quantità di armi al governo del Sud Sudan. I l portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino ha cercato di minimizzare, sostenendo che la Cina sta agendo secondo le direttive del Consiglio di Sicurezza e negando dunque un impegno legato ad interessi economici.

Le critiche non hanno risparmiato neanche l’amministrazione Obama, che ha continuato a inviare aiuti durante tutto il 2014 (più di 456 milioni di dollari in assistenza umanitaria), senza esercitare abbastanza pressione sui leader nell’ambito dei negoziati, eccetto per aver tentato di far rilasciare i prigionieri politici arrestati in quanto cospiratori. Inoltre, gli USA sono stati accusati dal Ministro sud sudanese dell’Informazione Michael Makuei Lueth di sostenere i ribelli guidati da Machar allo scopo di rovesciare il Presidente Kiir. Gli USA, infatti, si sentirebbero minacciati dalla presenza cinese nel settore petrolifero del paese. Nonostante non vi siano prove a sostegno di quanto affermato da Makuei, la sua idea mette meglio in evidenza tutti gli interessi in gioco nel Sud Sudan, diventato scenario di una nuova competizione fra Pechino e Wa shington.

Al di là delle speculazioni, le crepe esistenti nel processo di state-building capitanato dagli USA restano innegabili e i più critici iniziano già a tessere parallelismi tra il fallimento di questo esperimento e gli interventi in Afghanistan e in Iraq. I sostenitori dell’indipendenza del Sud Sudan si sarebbero concentra ti, infatti, sugli aspetti tecnici del processo, trascurando la capacità di tenuta del governo e l’effettiva riconciliazione di una comunità afflitta da fratture etniche profonde e reduce da anni di guerra civile. I milioni di dollari inviati nello stato africano a finanziare innumerevoli progetti di sviluppo non sono bastati a sanare queste ferite. La transizione dalla guerra alla pace non è cosa per tecnici, insomma, ma è un lavoro prettamente politico. Il Sud Sudan è nato da giochi di potere che continuano a flagellare il paese, da divisioni profonde e conflitti ancora irrisolti. La comunità internazionale e, in particolare, i paesi donatori, avevano riposto grandi aspettative nella firma degli accordi di pace che posero fine alla seconda guerra civile in Sudan nel 2005. Vennero trascurate, così, le numerose divisioni presenti all’interno della parte meridionale del paese, dove la manipolazione del fattore etnico allo scopo di creare artificialmente nuovi nemici tra gruppi tribali o tra clan perseguendo obiettivi militari o politici non era certo cosa nuova. La violenza scatenata in questo modo genera un circolo vizioso di vendette e paura, estremamente dannoso per le prospettive di coesione di una nazione. Mentre i cittadini e i politici sud sudanesi dovranno essere i protagonisti del futuro della propria nazione, la comunità internazionale dovrebbe trovare nuovi modi di indirizzare i propri sforzi a sostegno di una transizione pacifica nel paese.


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