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Il tasso di cambio tra mito e realtà

Creato il 05 maggio 2014 da Keynesblog @keynesblog

Il tasso di cambio tra mito e realtà

Pubblichiamo alcuni stralci di un interessante articolo comparso nel 2010 su "Sbilanciamoci.info"

I giornali plaudono alla promessa di Hu Jintao di lasciar fluttuare il cambio del renminbi in risposta alla lettera di Barak Obama, che il 16 giugno si è rivolto ai "colleghi" del G-20 richiamando la loro attenzione sul fatto che "tassi di cambio determinati dal mercato (nota del traduttore: liberi di fluttuare) sono essenziali per la vitalità dell'economia globale". [...]

Il tasso di cambio del quale parlano i giornali è quello nominale: il prezzo di una valuta (in questo caso lo yuan) in termini di un'altra (il dollaro). La competitività di un paese però non dipende solo da quanto costa la sua valuta, ma anche da quanto costano i suoi prodotti e quelli dei concorrenti. Questo calcolo è sintetizzato dal cambio reale, che tiene conto del differenziale di inflazione fra partner commerciali. Bene: i dati del Fmi ci dicono che dal 1994 al 2007 il saldo estero della Cina è cresciuto di circa 9,5 punti di Pil mentre il cambio reale si andava apprezzando del 30%, cioè la competitività di prezzo cinese peggiorava.

Nel periodo citato l'inflazione cinese ha viaggiato in media al 4.5%, quella statunitense al 2.6%. Dato che dal 1994 il cambio cinese era fisso al valore di 8.7 yuan per dollaro, i beni cinesi diventavano progressivamente meno convenienti. Questa dinamica era accentuata dal fatto che dal 1994 al 2002 il dollaro si era apprezzato di circa il 20% in termini effettivi, e quindi mantenendo una parità fissa con esso, la Cina in teoria perdeva competitività rispetto agli altri partner commerciali (ad esempio, l'Europa). In effetti, fino a tutto il 2002 la preoccupazione dei commentatori era che lo yuan, seguendo il dollaro, diventasse troppo forte (non troppo debole). Nel frattempo il surplus cresceva.

Che la sottovalutazione del cambio (posto che ci sia) non spieghi tutto non è una grande novità. Già nel secondo dopoguerra Kaldor (1978) notava come la quota di mercato delle esportazioni tedesche e giapponesi era andata aumentando in concomitanza con una perdita di competitività di prezzo. Trenta anni di ricerche indicano che innovazione e ricerca (gli elementi che riassumiamo come "competitività non di prezzo") incidono sulle esportazioni molto più del tasso di cambio reale (Fagerberg e altri, 2007).

Alcuni dati di cui non si parla: dal 1996 al 2006 la spesa cinese in ricerca e sviluppo è più che raddoppiata in rapporto al Pil (negli Usa è rimasta costante); lo stesso vale per il numero di ricercatori per milione di abitanti (che negli Usa è aumentato solo del 10%); lo stesso vale per la quota di esportazioni high-tech, che è arrivata a un terzo del totale, superando di qualche punto quella degli Stati Uniti [...]

Se questi argomenti hanno un qualche peso (e altri se ne potrebbero aggiungere), rimane da farsi una domanda: perché si parla così tanto di una cosa così irrilevante?

Il fatto è che l'argomento del tasso di cambio ha, accanto ai suoi scarsi meriti scientifici, due impagabili vantaggi tattici: la apparente semplicità, e il fatto di scaricare le colpe sugli altri [...] I cinesi servono a Obama come i "clandestini" servono a Bossi: stessa consistenza degli argomenti, stessa spendibilità politica. È la democrazia, bellezza... [...]

L'articolo da cui sono tratti questi stralci è di Si ringraziano Luca Alfieri e Gianluca Frattini per la segnalazione

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