Dicevo la mia partita si giocò tutta lì, durante una prova generale, da allievo su quel palcoscenico. Ruggero Cappuccio si alzò dalla seggiola e fermò le prove. Salì sul palco, mi guardò diritto negli occhi e disse con tono severo: “Persino un controscena, senza una battuta, ha il suo valore. Basta un dito fuori posto e sarai condannato ad essere guitto per il resto della vita”. Attraversò il teatro con il sigaro fumante e scomparve nel buio.
Quella per me fu come una sberla, ma ne compresi il valore tempo dopo. C’era una sacrosanta verità, che trasformò me e i miei compagni di scena in uomini di teatro, destinati a dare un senso alle nostre esistenze fuori o oltre il sipario. Quel regista e drammaturgo, attraverso il suo Teatro Segreto, ci aveva difesi e protetti dal divismo amatoriale che dilaga ovunque oggi come allora, professato dalla maggior parte dei poveri illusi, destinati ad essere messaggeri di volgarità.
Quando ho visto in Shakespea Re di Napoli il corpo di Claudio Di Palma imprigionato in una cornice, mi sono convinto che la visione di un universo drammaturgico può essere localizzato ovunque – anche all’ombra del Vesuvio Shakespeare alita il suo spirito – così come l’impasto della scrittura si denuda in eternità sotto più sembianze. E la lava che travolge i protagonisti di Fuoco su Napoli, l’ultimo e acclamato romanzo di Ruggero Cappuccio, mi riporta proprio nella landa della mia infanzia, i Campi Flegrei, dove ho vissuto la paura che il bradisismo capriccioso di Pozzuoli potesse spazzarci via prima di quanto credessimo e farci diventare personaggi dell’ultima tragedia sul Golfo di Napoli. Non è uno stonato gioco di parole: su quel palcoscenico molti scomparvero da personaggi, pochi di noi invece cominciammo ad esistere, perché Cappuccio ci svelò attraverso il teatro il primo segreto della vita. E quella lezione segnò la mia per sempre.