Il tempo di una minestrina

Da Hombre @LaLineadHombre
L'alzheimer si è arrampicato sulla vita di mia madre come un lento ma inarrestabile autunno alle prese con una pianta testarda.
All’inizio della stagione mia madre era ancora un albero forte e rigoglioso e, per quanto sola, pareva potersela cavare, anzi, a tratti sembrava invincibile. Ma io sapevo già che non avrei potuto arrestare il moto di rivoluzione della sua mente e l’avvicinarsi inesorabile di altre stagioni, più fredde.
Via via vedi le giornate che si fanno più corte e la tendenza in calo della luminosità si abbatte feroce sullo spirito che ti anima e lo fiacca.
L’albero dapprima si fa colorito, muta, diventa quasi più affascinante, creativo. Si veste di colori improbabili e s'imbelletta come dovesse andare in scena, ma dentro, di fatto, sta morendo. E quindi si spoglia, serenamente, perde la sua chioma, i suoi ricordi, il suo senso. Pur se non le vedi cadere le foglie, ogni giorno l’albero ne perde alcune e la sua figura contro il sole s’impoverisce fino a rassomigliare sempre più a uno scheletro affranto e defraudato della linfa.
Ed è un autunno crudele che va a conficcarsi profondo come una spada nel cuore di un inverno gelido e cupo.
La differenza con l’alternarsi delle stagioni sulla Terra sta nel fatto che l’inverno dell’Alzheimer non produrrà più alcuna primavera. Non una gemma sarà in grado di fiorire sui rami secchi di mia madre. Non una gemma.
E questa è la prima cosa che devi accettare, per non morire anche tu con lei.
La Rai sembra essersi ricordata di avere un archivio da qualche parte e in queste serate fredde passa le storiche comiche di Stanlio e Ollio. La musica che arriva dal televisore, a differenza delle immagini che mia madre non recepisce più, le viene veicolata su una frequenza balzana della sua testa che a sprazzi la riceve, e allora lei inizia una strana danza sulla sedia: ballonzola puntando i piedi a terra e lo fa a tempo di musica anche se non si accorge davvero di nessuna melodia. Gli effetti del movimento invece la fanno sorridere e confezionano un omaggio involontario e sublime alle rigorose sequenze in bianco e nero animate da Laurel e Hardy.
Sono gli occhi di mia madre che ne tradiscono l'assenza.
Dietro la corteccia del suo sguardo acquoso c'è un tronco cavo, un cervello che non timbra più il cartellino. E c'è un'anima alla deriva, dispersa dentro alle falde di una irriconoscente vita.
Mia madre si nutre come un automa portandosi alla bocca quello che si trova davanti nel piatto, ma guarda il nulla.
E sono gli stessi occhi nei quali baluginava un lampo di felicità, quando, in un'altra sua vita, inciampava in una rima e correva a vergare un verso sul suo quadernetto nero di poesie. Ci teneva a precisare che aveva fatto la quinta elementare, mia madre, e che per questo il suo scrivere era povero di vocaboli e ricco di errori. Te la vedevo arrivare, quaderno in mano, fiduciosa che le potessi aggiustare le sue sviste ortografiche.
«Mi riguardi le acche?» era la sua frase tipica, non avendo mai ben compreso quando inserire e quando no la strabenedetta lettera muta.
Sta finendo la sua minestrina, finalmente in pausa dagli ormai abitudinari sproloqui, combatte col brodo che le cola lungo il mento e lo vince, con un piccolo miracolo, asciugandolo col dorso della mano.
Stacco dal muro la cornice di legno nella quale ha incastonato una poesia che le è particolarmente cara: sono i versi che parlano della sua di madre e che stanno lì da quando è morta, o poco dopo.
La demenza senile ha colpito senza pietà in famiglia mia e l'ereditarietà ci trasferisce il gene malato con una dolcezza spietata. C’è chi con la dipartita dei suoi cari entra in possesso di castelli, ori e conti correnti svizzeri e chi, come noi, si trova al cospetto di un magnanimo notaio che aprendo il testamento legge:
«Lascio l’Alzheimer alla mia adorata progenie».
   Con tristezza io ti guardo, o mamma
È scritta proprio così, con una "o" a rafforzare il vocativo, uno "o" sospirosa, una "o" che ricorre più volte nella poesia, sempre senza l'acca.
   Con dolore mi si stringe il cuore
   dove c'era amore ora non sai cos'è.

Parole rimaste appese per vent'anni in salotto senza un lettore attento, senza un giusto plauso, abbandonate a se stesse, pur nella loro sofisticata veste. Guardo la mia di mamme, mi rimanda un’occhiata vuota d'amore nel mancato riverbero di quei sentimenti già compresi e descritti con passione da lei stessa nelle sue mille poesie.
Parole come quelle che adesso schizzano fuori come lapilli da un vulcano. Ci sono momenti in cui per zittirla dovresti spararle. Parla e sparla, blatera e sragiona, sproloquia e sentenzia, sputa e s’inventa le parole di un personale argot che tende a tagliarci fuori dalle volute dei suoi pensieri.
Assonanze buffe e accentazioni improprie completano la creazione di sempre nuovi ed effimeri vocaboli che durano lo spazio di una frase buttata lì o del soffio lieve di una parola.
Così un "voglio andare a letto" può diventare un "Boggio dare abbento" e un "Hai mangiato?" si trasforma in "Cai mammato?" e poi friccito, leboli, stembari, gruttalo, sembio, lavarna e rundili, solo per citare quelle di stasera, assemblate nel tempo di una minestrina.
E queste sono perle capaci di regalarti pure un sorriso, anche quando la voglia di sorridere non ce l’hai più perché hai visto la volontà strappata via a morsi dalla mente di tua madre.
   Dove c'era un sorriso qualche volta c'è
   però non sai conoscer più le cose

Resta lì, la mia mamma, imbambolata con il cucchiaio in mano, come fosse la prima volta, lo rigira come se potesse parlarle, lo posa come se potesse da solo caricarsi di minestra e trasportargliela in bocca.
L'unica attività che ancora riesce a impegnarla per qualche minuto sono gli album di fotografie. Niente tivù, niente libri, impossibili le chiacchiere ovviamente, ma le foto le ripassa centinaia di volte avanti e indietro, le setaccia nella disperata e vana ricerca di un volto, di un nome o di uno straccio di ricordo. Marito, figli, nipoti, tutti accomunati da un non amore estremo, accarezzati da una vista assente e profanati da una memoria cattiva, capace di cancellare la vita in un minuto, come si fa col gesso dalla lavagna.
   Se ti chiamo Mamma
   tu mi guardi e non mi rispondi mai
   non lo sai se i figli tu hai

Coll'acca, ce l'ha messa, una bella acca possessiva che segna il contrappasso tra l’avere dei figli e non essere più in grado di percepirlo.
Alla fine resta un irragionevole vuoto scavato dall’amore per un figlio che nemmeno sa di avere. Quel figlio per cui ha sofferto e corso e lottato e pianto e sperato e sbroccato e desiderato e pregato, quanto ha pregato lo sa Dio, davvero, per quel figlio, quel figlio che non ha più un posto nel suo cuore pulsante ma morto, nella sua testa bucherellata e senza speranze. Quel figlio che ha stretto forte quando piangeva, per una ferita, per un voto, per una ragazza, quel figlio che non ha più un posto tra le sue braccia. Quel figlio.
   Tu che parli con lo specchio, eppure
   a ripensarci, o mamma, tu sei sempre quella.

Ci ripenso alla mia mamma, alla sua lotta con la punteggiatura, perché non li ha mai capiti quei versi moderni senza un punto, senza una virgola. Come si fanno a leggere se non sai nemmeno dove prendere fiato?
 «Mi riguardi le acche? E anche i punti e le virgole».
E io punteggiavo come potevo, poi inserivo o cassavo acche, alla bisogna. Ma che palle, pensavo. Quanto scriveva mia madre! E quante volte mi si parava davanti col quaderno o con un foglio strappato chissà da dove, una penna e il suo sguardo schietto. Non che implorasse un aiuto, si trattava soltanto d’una richiesta da madre a figlio. Come avrebbe potuto chiedermi dov'ero stato o cosa volevo per pranzo, eccola che arrivava, con le sue carabattole da poetessa contadina, a domandare una correzione a quel figlio fortunato che venivano a prenderlo con lo scuolabus giallo fino in culo al mondo, dove stavamo prima, per portarlo a scuola a studiare di acche e di virgole.
   eppur sei come cosa che cammina
   non sei più niente, o mamma.

Chissà se un giorno, il mio di figli, prendendo in mano questo scritto comprenderà il suo destino o se l'avrà magari già capito da solo. Chissà se avrà paura o se accetterà l’ineluttabile con la pacata rassegnazione e la dignità che ci passiamo in eredità, assieme al morbo. E chissà quali pensieri s’incroceranno nella sua mente, guardandomi, nel tempo di una minestrina.
   il cuore mio lo sente e si tormenta
   anche se cerco di non dargli retta
   questa sarà la strada che mi aspetta
.
Passiamo dal bagno per il tagliando serale e uscendo salutiamo quei due, la signora coi capelli grigi minuta e un po’ ingobbita che risponde al sorriso di mia madre e il ragazzone barbuto che la sorregge con le mani sotto le ascelle e sghembo sorride, anche lui.
«O, guarda chi c'è – sorriso – allora arrivederci, eh», poi saluto anch'io le due sagome dentro allo specchio e mi porto avanti coi lavori.
Quindi siamo in camera dove aiuto la mamma a cambiarsi per la notte. Mentre le tengo la giacca del pigiama, la osservo che agguanta la manica della camiciola con le dita e la tiene stretta, affinché non le scivoli su, lungo il braccio, infilando la giacca.
È una foglia dell’albero, questo gesto, una delle ultime foglie rimaste appese, e io lo so che un giorno cadrà pure questa, ma ancora no. Ancora no.

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