A volte hai la sensazione che ci sia un cambiamento in atto da qualche parte. Un qualcosa che si è appena messo in movimento oppure sta per farlo.
Non riguarda necessariamente la tua vita, ma un insieme più grande che comprende te stesso e molto altro.
Non è una cosa concreta e ben identificabile come un nuovo amore o un evento a cui assistere, no. Niente di tutto questo.
È un qualcosa che viaggia ad un livello indefinito, più che altro una sensazione.
Pensi che ti manchi solo tanto così per riuscire ad afferrarla e renderla spiegabile, ma poi è già passato troppo tempo e uno dei tanti doveri di una vita inutile ti richiama all’ordine uccidendo ancora una volta quella speranza.
Non è precisamente questo ciò che passa per la testa di Robert Freeman, uno dei tanti personaggi che a turno assumono il ruolo di protagonista nel romanzo Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, ma è quello che è passato per la mia leggendo i pensieri del giovane Rob.
Spesso non sono le vicende raccontate nei libri a fare la differenza, bensì la loro interpretazione da parte del lettore che legge le storie e le vive facendole sue in base alle proprie esperienze personali.
È per questo che persone diverse possono dare giudizi diversi; se fosse solamente una questione di tecnica e di stile staremmo freschi.
Il romanzo di cui stiamo parlando è in realtà complesso anche per quanto riguarda la costruzione: personaggi differenti si incontrano e si allontanano secondo capitoli che non hanno una cronologia ben definita.
Esiste senza dubbio qualche protagonista più importante di altri, Sasha e Bennie su tutti, ma il romanzo pur essendo per buona parte incentrato su di essi, può vantare un orizzonte ben più allargato.
La vicenda non è propriamente lineare, ma si chiarisce poco per volta capitolo dopo capitolo.
Non mancano spunti riflessivi e forse anche filosofici:
La gola ti si stringe e gli occhi si inumidiscono mentre osservi i loro volti che da vitrei si fanno tristi, ed è tutto un po’ commovente e tenero, non fosse che tu non sei del tutto lì. Una parte di te si trova qualche metro più in là, o più in alto, e sta pensando: Bene, ora ti perdoneranno, non ti abbandoneranno, e la domanda è: chi sei davvero «tu»? Quello che dice e fa le cose, oppure quello che osserva?
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