Magazine Lavoro
È vero, siamo passati in larga misura da «Paese contadino a paese post-industriale». E però scorrendo le vignette, tra afflati propagandisti tipici dell’epoca, accanto agli strali diretti a crumiri, scissionisti, padroni con la tuba, De Gasperi, Fanfani, Scelba, troviamo anche l’esplosione di risate amare su problemi del lavoro che echeggiano in qualche modo condizioni non lontane dai modernissimi tempi nostri. Prendete quei due fidanzati raffigurati, mano nella mano, nel gennaio del 1954. Lui mormora a lei: «Cara, il mio contratto di lavoro è a termine, perciò noi potremo sposarci a termine, metter su casa a termine, fare bambini a termine…». Ed è possibile pensare che molti pensionati al minimo potrebbero sorridere amaramente anche oggi scrutando la visione di quel tribunale immaginario (1953) che decreta: «La Corte, considerato che in Italia non esiste la pena di morte, condanna l’imputato a vivere con la pensione della previdenza sociale…». Mentre le famiglie contemporanee dei morti per amianto potrebbero indugiare su una vignetta macabra, con la conversazione tra due persone: «Ha sentito cavaliere? Stanno arruolando un corpo di volontari della morte! Perbacco il governo vuole mandare dei soldati in Corea? Macché si tratta di operai che andranno a lavorare nelle miniere della Montecatini».
E che dire del problema delle donne nel lavoro? Allora non c’era la simpatica invenzione delle dimissioni in bianco per non avere in azienda lavoratrici incinte. Però si rideva su questo scambio d’ipotesi: «Allora siamo intesi cara, per evitare che alla fabbrica ti licenzino, andremo a sposarci all’estero, tu resterai a dormire dai tuoi genitori, io dai miei, continueremo a mangiare a mensa, faremo all’amore di notte nei giardini pubblici e cercheremo soprattutto di non avere mai bambini…».
È un viaggio nell’Italia di quegli anni raccontata sul periodico «Lavoro» , nato come quotidiano unitario nel 1945, passato a settimanale nel 1948 e trasformato nel 1951, tramite Gianni Toti, in un rotocalco a colori ricco di vignette e foto. Con rubriche come quella che ci riporta al titolo di questo libro: «Tra l’incudine e il martello». Quella voluta dalle due autrici è una storia «narrata dal basso da militanti e attivisti del sindacato spesso autori delle vignette, ma nello stesso tempo veicolata da una rivista che guarda al mondo del lavoro con gran spregiudicatezza». Matura cosi (come ha scritto Gianni Ferrante) «una cultura sindacale che analizza in modo sempre più preciso l’intera condizione di lavoro, il processo produttivo, l’itinerario attraverso cui congegnare un processo riformatore che migliori la condizione complessiva di lavoratori dipendenti, anche fuori dai luoghi di lavoro». Quella esperienza editoriale ebbe fine, e Gianni Toti, in una intervista a Tarcisio Tarquini, ha voluto ricordare come «La crisi cominciò con la crisi del sindacato, con la sconfitta alla Fiat del 1955». Su «Lavoro» avevano fatto una copertina in cui si usava la parola «sconfitta» e Di Vittorio aveva accettato «perchè si rendeva conto che l’unico modo per affrontare questa realtà era di non far finta di nulla. Fino ad allora avevamo sempre parlato e scritto di lotte operaie epiche…con la sconfitta non sapevamo più che fare». Eppure poi venne la riscossa.
E oggi? Oggi i nuovi operai, quelli rimaste nell’industria manifatturiera in declino, quelli dei call center, le false partite Iva, i presunti soci a partecipazione? Escono molti libri, spesso con drammatiche testimonianze. Ma si ride poco. La satira è difficile. La nostra debole memoria ci rammenta solo Maria Antonia Fama col suo «Diario di un precario (sentimentale)» oppure l’audiolibro «Parole in cuffia» di Alessia Rapone. Molto hanno fatto i giovani «Non più disposti a tutto» con i loro manifesti paradossali.
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