Riabilitazione e positività da spogliatoio
Favola moderna dalla morale riconoscibile, Il terzo tempo mette in mostra un intreccio prevedibile e uno stile registico opprimente ed evocativo.
Samuel è un adolescente difficile. La madre è una tossicodipendente e il padre non lo ha mai conosciuto. Negli ultimi anni ha commesso furti, rapine e aggressioni ed è entrato e uscito dal riformatorio. Dopo aver scontato l’ennesima pena viene inserito in un programma di riabilitazione e viene assegnato a Vincenzo, un assistente sociale che la domenica si siede sulla panchina di una squadra di rugby locale. Il rapporto tra i due è tumultuoso, ma Vincenzo vede in Samuel un potenziale campione della palla ovale e lo inserisce nella squadra.
Il terzo tempo nel rugby è quello che si svolge a fine partita: un incontro celebrativo tra vincitori e vinti, nel quale si beve e si mangia insieme. È proprio questo il momento più importante dell’intera partita, quello che insegna lo spirito di fratellanza e il rispetto per l’avversario. È su questo teorema che si esplica Il terzo tempo diretto da Enrico Maria Artale, un film che ribadisce l’importanza dello sport nel recupero sociale di un individuo. Ed è proprio quello che succede a Samuel (adolescente problematico, che entra ed esce dal riformatorio), che cerca di incanalare rabbia e forza bruta nel gioco del rugby, cercando inoltre di integrarsi e imparare l’importanza dell’appartenenza a un gruppo dai valori positivi. Un tema prevedibile e riconoscibile, che viene ostentato e che si sviluppa progressivamente in una vicenda che mette a nudo caratteri forti e controversi.
Non è assolutamente disprezzabile la pellicola diretta da Artale (nonostante la banalità tematica) perché viene costruita con dedizione e, facendosi empatica, va alla ricerca dell’attenzione dello spettatore. Tuttavia è lo stile registico (soffocante, che sottolinea dettagli e fatica, enfatizzando l’autorialità) che si rivela non necessario. Artale si getta addosso al corpo di Samuel, lo immortala con l’onnipresente camera a mano e prova a infondere profondità a una pellicola, che scorre progressivamente su una superficialità argomentativa. Ed è proprio questo l’aspetto meno invitante di un prodotto, che sciorina positività e una morale condivisibile.
Presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 70, Il terzo tempo aderisce adeguatamente a una tipologia di genere, ovvero quella della parabola sportiva buonista, non ricattatoria, priva di cadute di stile e furberie. Inoltre mette in mostra due caratteri difficili e apparentemente contrapposti (Samuel è un ribelle e Vincenzo, il suo assistente sociale, è un uomo che fatica a trovare il giusto equilibrio, dopo la morte della moglie); due facce della stessa medaglia, che non riescono a vedere un futuro roseo e privo di ostacoli. Il terzo tempo in fin dei conti si fa apprezzare, ma non è sicuramente un esempio di pellicola che possiede originalità e una sceneggiatura brillante. Difatti, non possedendo una sua identità, rimane a metà strada tra uno spot per il rugby (il film è patrocinato dalla F.I.R) e una vicenda di recupero sociale, attestandosi a piccolo prodotto senza pretese, che si lascia guardare, ma non ricordare.
Uscita al cinema: 21 novembre 2013
Voto: **1/2