Il Documento di economia e finanza (Def) – come abbiamo già scritto qui (DEF: i numeri raccontano una realtà diversa) – riserva molte sorprese su spesa pubblica e tasse, sorprese non sempre positive. Ora che l’attenzione di giornali e telegiornali sembra essersi placata, è utile soffermarsi anche sul “metodo” con cui è stato scritto questo importante documento programmatico del governo sulla base del quale sarà scritta la Legge di stabilità (ex Finanziaria) del prossimo autunno. Un metodo apparentemente caotico, volutamente propagandistico, certamente nocivo di quella certezza delle regole cui avremmo diritto noi contribuenti.
Il caos apparente. Innanzitutto, lo scorso 11 aprile, mentre su tutti i principali media italiani si rincorrevano presunte indiscrezioni sulle nuove misure pianificate dal Governo all’interno del Def, ecco che il quotidiano del Sole 24 Ore pubblica in prima pagina un breve e misterioso corsivo, così intitolato: “Oltre la decenza, Renzi intervenga”. Nell’articolo si parlava per la prima volta di “un aumento dei contributi per tutte le imprese come clausola di salvaguardia dello sconto contributivo per le aziende che stabilizzano i precari”; “sembra una boutade, uno sketch di Crozza. E invece qualcuno lo ha scritto davvero”, osservava il quotidiano confindustriale (finalmente con una robusta dose di spirito critico verso l’esecutivo!).
Ecco in estrema sintesi cosa ha scoperto il Sole 24 Ore. 1) Il Governo, come noto, ha previsto negli scorsi mesi un forte incentivo fiscale per i nuovi contratti a tempo indeterminato, spingendo molti datori di lavoro a trasformare contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato per poter risparmiare sui contributi da pagare (sulla capacità di questa norma di creare nuovi posti di lavoro, invece, ancora sono molti i dubbi). 2) Lo stesso Governo deve aver ritenuto che in troppi saranno attirati da questo sconto fiscale, e di conseguenza lo Stato centrale potrebbe ricevere molte meno tasse del previsto nei prossimi mesi. 3) Come rimediare? Semplice: rivalendosi sugli stessi datori di lavoro che pubblicamente si dice di voler aiutare con lo sgravio sui contributi. Così, a fronte dei 16 milioni di euro aggiuntivi che per il 2015 potranno servire per coprire i minori introiti fiscali delle tasse, ecco che il Governo ha introdotto una “clausola di salvaguardia” (qui una definizione) che prevede l’introduzione di un “contributo aggiuntivo di solidarietà” (solidarietà con le casse dello Stato, evidentemente) a carico dei datori di lavoro del settore privato e dei lavoratori autonomi. “Una disposizione, però – ha notato il Sole 24 Ore – che se applicata avrebbe portato al paradosso di penalizzare soprattutto le aziende che non trasformano i rapporti di collaborazione in tempi indeterminati, colpendole con un generalizzato aggravio dei costi. Con una mano si abbassa il costo del lavoro, con l’altra si alza”.
La fortuna ha voluto che questa volta l’attenzione critica della stampa sia servita a qualcosa; il giorno successivo, lo scorso 12 aprile, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha annunciato la marcia indietro del Governo: “Per evitare preoccupazioni e possibili fraintendimenti” è stata eliminata la clausola di salvaguardia che era stata scaricata sulle spalle degli imprenditori.
La propaganda voluta. Appena 24 ore prima di questo piccolo caso, da Palazzo Chigi erano filtrate voci destinate ad alimentare il dibattito politico-mediatico fino a queste ore; lo scorso 10 aprile infatti “fondi del Governo” facevano sapere all’Ansa che “i tecnici di Palazzo Chigi e del ministero dell’Economia avrebbero individuato, a quanto si apprende, risorse aggiuntive
di circa 1,5 miliardi da destinare a misure previste dal Def. Risorse che a Palazzo Chigi definiscono un ‘bonus’, una sorta di ‘tesoretto’ che in queste ore il governo sta decidendo dove destinare”. Seguono giorni di conferenze stampa e interviste a reti unificate, occasioni utili per discutere di queste fantomatiche “risorse fiscali in più” che a un tratto il Governo, bontà sua, si sarebbe ritrovato a disposizione. Nei retroscena che descrivono lunghe discussioni tra ministri e tecnici del Palazzo, si parla di ulteriori sgravi fiscali per le imprese, poi di espandere gli 80 euro ai più poveri, di borse di studio a schiovere… L’incertezza sul futuro di questi 1,5 miliardi di euro è massima; l’unica cosa che conta è rappresentare sui media il Governo come un padrone buono e misericordioso che dispenserà un po’ di spesa pubblica al popolo sofferente. Come se quelle risorse non fossero dei contribuenti, e come se in Italia non servisse piuttosto abbassare le tasse sempre e comunque quando possibile. Poi però, lo scorso 21 aprile, una doppia doccia fredda su annunci tanto roboanti. L’Ufficio parlamentare di Bilancio parla dello sbandierato “tesoretto” come di “un elemento non acquisito”. E la Banca d’Italia consiglia di utilizzare eventuali risorse aggiuntive per ridurre il debito pubblico: “Nel 2015 un miglioramento dei saldi sarebbe dovuto interamente ai minori interessi sul debito”. Passa qualche ora e d’un tratto dai giornali scompaiono le discussioni sul “tesoretto”; evidentemente pure l’esecutivo si è reso conto che sarà impossibile utilizzarlo prima delle elezioni regionali; tutto rimandato all’autunno.
Certezza, addio. In definitiva, un mese di dibattito attorno al Def, documento programmatico della politica economica del Governo, ha ingenerato nell’opinione pubblica tante attese, salvo poi tradirle tutte. Attese negative, come nel caso del contributo aggiuntivo ad hoc per gli imprenditori di cui abbiamo scritto qui, poi per fortuna cancellato; attese positive ma distorte, come quelle del “tesoretto”, di cui nulla più è dato sapere. Al di là del caos apparente e della propaganda voluta, rimane un punto: al contribuente italiano non s’infliggono soltanto tasse più alte della media europea e mondiale. Né, come ha rilevato la Cgia di Mestre, gli italiani sono “soltanto” quelli costretti a impiegare più tempo per pagare le tasse: “Tra le code agli sportelli, il tempo perso per recarsi dal commercialista o per compilare moduli, registri e scartoffie varie, i contribuenti italiani impiegano 269 ore all’anno per poter pagare le tasse. Ben 33 giorni lavorativi: in Europa solo i portoghesi percorrono una corsa ad ostacoli più ‘pesante’ della nostra” (qui il documento completo). L’ultima vessazione che dobbiamo sopportare è quella della continua incertezza – che rende più difficile pianificare consumi e investimenti – e che torna utile soltanto alla nostra classe politica e burocratica.