Magazine Cultura

IL TESORO PIU' GRANDE di Fabiola D'Amico ( Cap. 15 - 16 )

Creato il 19 marzo 2011 da Francy
* LEGGETE QUI la trama del romanzo.
*Per leggere tutti i capitoli precedenti  andate qui.   
  15
  IL TESORO PIU' GRANDE di Fabiola D'Amico ( Cap. 15 - 16 )Isabella camminava dietro il ragazzo, circondata dai rumori assordanti e dal vociare dei commercianti, guardava ma non vedeva, sentiva ma non ascoltava. A un certo punto, però si fermò e non poté trattenere un sussulto. Alcuni teschi, chiusi in gabbie di ferro, pendevano da un orologio. Si trovavano sulla piazza antistante il palazzo Chiaromonte.
    «Che cosa è?». Isabella era inorridita.    «Vi riferite alle teste? Sono lì da più di cento anni!». Giuseppe aveva parlato in tono noncurante. La visione di quei crani non destava scalpore tra i cittadini abituati a quell’immagine.    «Ma perché sono lì?». Isabella non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle orripilanti figure.    «Nel 1523 scoppiò una congiura antispagnola. I fratelli Imperatore, d’accordo con Girolamo Leonfante, tesoriere del Regno, con il conte Cammarata e il barone di Sclafani, volevano restaurare il regno indipendente di Sicilia, grazie all’aiuto francese. Ma il Duca di Sessa, ambasciatore di Carlo V a Roma, riuscì a intercettare le lettere che i congiurati, tramite Francesco Imperatore, stavano per mandare al Re di Francia. Il Duca ordinò di arrestare i membri della congiura, così il Conte Cammarata, il tesoriere Girolamo Leonfante e Francesco Imperatore furono decapitati a Milazzo l’undici luglio 1523 e le loro teste furono chiuse in tre gabbie di ferro che sono state esposte qui, per ricordare ai palermitani che sono sotto il giogo degli Spagnoli».   «Che storia triste».  «Eh sì, ma quello è nulla a confronto di ciò che ora vi accade».  Isabella non riusciva distogliere la vista da quell’immagine sinistra.   «Fatti ancora più raccapriccianti? Raccontami».  Entrambi sedettero su una delle panchine che circondavano il meraviglioso parco di fronte al palazzo. Le vicende del Palazzo Chiaromonte, conosciuto anche come lo Steri, racchiudevano decenni di soprusi e atroci fatti del popolo siciliano. Per secoli i fasti baronali, viceregi e inquistoriali vi si erano avvicendati con le miserie del popolo; quel luogo racchiudeva in sé tanti ricordi, solennità e feste magnifiche, atroci delitti e scene terrificanti. Da una di quelle finestre Martino II si era affacciato a veder decapitare Andrea Chiaromonte, uno dei quattro vicari del Regno dopo la morte di Federico III detto il Semplice. Lì aveva cercato invano rifugio la bella, sapiente e sventurata Bianca di Navarra, che con una nuova fuga, aveva salvato, in una fredda notte d’inverno, la sua regale vedovanza dai libidinosi ardori del Conte Bernando, riuscendo a fuggire dalle finestre. Dinanzi ad esso, nei tumulti che si erano scatenati nella città nel 1516, il tuono delle bombardate e dei falconetti si era confuso col ruggito del popolo che chiedeva la testa del Viceré Ugo Moncada, che tremante era rimasto a spiar da una delle finestre il tumulto, fino a quando, travestito da servo, era riuscito a fuggire all’ira del popolo insorto attraverso un segreto uscio. Quel popolo che urlante si era precipitato, come invaso da una forza maligna, a distruggere la vanità dell’aristocrazia, entrando nel palazzo e saccheggiandone suppellettili, manomettendone i mobili. Un popolo che cercava la libertà, desideroso di poter trovare un sovrano che non disdegnasse di occuparsi di loro, anziché abbandonarli alla mercé di viceré ambiziosi, lasciandoli morire di fame.   Su quella piazza, davanti quel fastoso palazzo, Giovanni Luca  Squarcialupo, personaggio di quel medesimo popolo, credendo di poter vincere gli Spagnoli, dopo aver incendiato le porte, invaso i cortili, le scale, i vestiboli, le aule, aveva scaraventato giù dai merli i giudici della Magna Curia.   Dagli alti pilastri della campana si buttavano giù i trasgressori delle leggi sanitarie in tempo di pestilenza. Molti di loro, mutilate le mani, erano costretti ad assistere allo strangolamento dei compagni di robe infette, a guardare precipitare i corpi inerti che all’impatto con il suolo si squartavano, riversando sugli astanti sangue e budella. Infine essi stessi erano strangolati e gettati giù come gli altri, bruciati e le loro ceneri erano sparse al vento.  Tutte queste atrocità, però scomparivano dinanzi a quanto si consumava da più di cinquant’anni; infatti, il palazzo, lasciato dai viceré, era stato occupato dalla Santa Inquisizione. Al posto dei saloni, vi erano le aule, dove si tenevano i processi; nelle cantine, buie e umide, gli Inquisitori torturavano gli imputati; più giù si trovavano le celle, dove i prigionieri restavano per giorni, mesi, anni, perdendo ogni speranza.   Tutti quei nomi, quei fatti destavano in Isabella curiosità, a volte ribrezzo; ma per il popolo siciliano, per i palermitani ogni nome, ogni data rappresentava il ricordo di una sconfitta, la morte di persone che avevano sacrificato la propria vita per un sogno, qualunque esso fosse stato: la libertà, il potere, la vita. Nessuna parola, nessun racconto poteva far luce sulle sofferenze della povera gente che spinta dalla fame e dalla disperazione, irrompeva in quelle fastose camere e le distruggeva, mandando in fumo la vanità delle cose.   E quei teschi, lì in alto, non potevano sopprimere il desiderio di rivalsa. Quando i palermitani le guardavano, ricordavano i sogni distrutti e più forte di prima tornava la voglia di ribellarsi, di travolgere il sistema e tornare a essere liberi.    Dopo che Giuseppe ebbe finito di parlare, i due rimasero in silenzio. Poi il ragazzo continuò: «Vedete quelle spranghe di ferro, lì vicino la porta maggiore del palazzo? Da lì raccontano che penetra un debole filo di luce, appena sufficiente ai prigionieri per comprendere che le notti si avvicendano ai giorni».   Isabella fu assalita nuovamente da un senso di disagio, quello stesso che l’aveva assalita sulla piazza della Cattedrale. Era come un avvertimento o un presagio. In quel momento dall’uscio centrale uscirono degli uomini. «Ecco, uno degli Inquisitori!». Giuseppe sembrò preso dal panico.  A Isabella il cuore cominciò a battere più forte l’aspetto dell’Inquisitore incuteva paura e ribrezzo. Quello che intimoriva non era tanto il vestito e il capello nero, quanto la faccia arcigna dell’uomo. Incedeva con aria d’importanza stringendo tra le mani un crocefisso e allungando l’altra, affinché gli astanti ne baciassero il reale anello. Al suo arrivo sulla piazza tutti dovettero fermarsi e farlo precedere. Giunto vicino a Isabella e Giuseppe, il suo sguardo si soffermò sulla donna e aggrottò le sopracciglia, assumendo un aspetto ancor più terrificante. I suoi occhi gelidi si soffermarono sul viso chino, sui morbidi capelli della donna, infine gli porse la mano e, dopo che Isabella l’ebbe baciata, si allontanò. Soltanto quando l’uomo con il suo seguito andò via, la donna si rese conto che aveva trattenuto il respiro. La sensazione di panico non la abbandonò, ma continuò a tormentarla per tutta la strada fino a casa di Giuseppe.   Appena giunti nella casa del signor Bartolomeo, Isabella ricordo a Giuseppe la promessa che gli aveva strappato quella mattina e a malincuore il ragazzo disse di ricordare. Entrati nella modesta abitazione, furono accolti da grida di bambini e dall’abbraccio forte e rassicurante di donna Lucia e dallo sguardo acuto di donna Paola, madre del signor Bartolomeo.    «Siamo lieti che il capitano Velazquez vi abbia portato nella nostra umile casa. Scusate il frastuono, ma non è facile accudire tutti questi bambini». Donna Lucia aveva una voce calda, come il suo abbraccio. Un tempo doveva essere stata una bella ragazza, il suo viso era gaio e il suo corpo nonostante l’avanzato stato di gravidanza, sembrava agile. Portava in braccio in una deliziosa bimba che non appena vide Isabella si gettò tra le sue braccia.   Donna Lucia esclamò: «Dovete consideravi molto fortunata, fa sempre i capricci con gli estranei!».   Isabella baciò la piccola sulle gote paffute e profumate e la bimba le rispose con una dolce risata.  «Quanto tempo ha?».    «Dieci mesi!».  Donna Lucia le spiegò che aveva sei figli, sette con quello che portava in grembo. La più grande era Filomena, poi c’erano Giuseppe, Giovanni, Salvatore, Ignazio, e Rosalia. Poi le confessò che desiderava che il prossimo fosse un maschio, poiché le femmine davano troppe preoccupazioni al padre, terribilmente geloso.     «Figuratevi che non posso uscire senza di lui, e mi vieta di parlare con chiunque non abbia il suo permesso». Donna Lucia sembrava compiacersi del comportamento del marito.  In quel momento entrarono Juan e il signor Bartolomeo. Juan senza guardare donna Luisa negli occhi le fece il baciamano, così come a donna Paola, poi si complimentò con Filomena, che arrossì, e infine rivolse la sua attenzione ai piccoli di casa, che lo attorniarono festosi.  Isabella lo guardò sorpresa, non avrebbe mai immaginato che Juan riuscisse a stare così bene in compagnia dei bambini. Sembrava molto rilassato, giocava e si rotolava sul pavimento con loro. La piccola Rosalia a veder tutto quel movimento cominciò a fare i capricci e anche lei reclamò l’attenzione del capitano.    «Bartolomeo avevate ragione, è bellissima». La voce di Juan era dolce e sommessa, la bimba sorrise e sul volto roseo comparvero due fossette, allungò le piccole manine paffute e pizzicò le guance di Juan.    «Hai fatto un’altra conquista». Isabella immaginò per un attimo che la sua vita con Juan avesse un futuro. Che bello sarebbe stato avere dei figli con gli occhi blu, come il padre. Poi la realtà tornò a soffocarla e il sogno svanì in un battito di ali di farfalla.    «Tutto bene? Immagino che Giuseppe ti abbia protetto adeguatamente». Juan aveva visto il modo repentino con cui l’espressione di Isabella era mutata, ma preso dalla piccola Rosalia, non si accorse dello sguardo di avvertimento che Isabella lanciò al piccolo uomo.    «Oh, sì! Giuseppe è stato molto in gamba».   «Ne sono felice. A proposito stasera siamo inviati a una serata musicale dal principe Butera, alla Domus Magna alla Kalsa».  Isabella lo guardò sorpresa: «Che sciocchezza, sarai stato invitato».  Juan le rivolse uno sguardo determinato: «Se vado io, vieni anche tu».  Lei avvertì un fremito di paura misto a felicità. Se lui era pronto a presentarla alla società, sicuramente aveva delle intenzioni serie. Probabilmente la amava. E lei lo stava miseramente tradendo.    «Non posso venire, sai benissimo che non ho l’abito adeguato».     Con quella frase ritenne chiusa la faccenda, ma si sbagliava.   «Sì, so che non hai un abito da sera, per questo motivo, ho provveduto io».  A un suo cenno, Bartolomeo aprì una scatola di legno e ne uscì un magnifico abito in seta gialla e pizzo spagnolo sulle maniche e sullo scollo. Era un vestito prezioso, molto elegante, Isabella ne possedeva alcuni in casa. Le ragazze, incantate, diedero gemiti di visibilio.   «Credo che la misura sia quella giusta. Ho preso due camere alla locanda del principe, vicino alla Domus, così non dovremmo preoccuparci di ritornare sul vascello stanotte». Disse divertito quando lei arrossì.  «Ti ringrazio per il dono, ma non sarebbe opportuno». Non voleva andare: se qualcuno la riconoscesse, cosa farebbe?  «Io sarò molto orgoglioso di mostrare a un pubblico raffinato la mia fidanzata».  Isabella spalancò gli occhi, sorpresa per pronunciare una sola parola.  «D’altra parte non credo che si sia mai vista una fidanzata senza anello».Con un gesto galante le offrì una scatola in velluto blu. Poiché lei era incapace di muoversi, Juan aprì il piccolo contenitore, mostrandole un magnifico anello in oro con uno zaffiro circondato da brillanti. Il cuore di Isabella batteva velocemente, non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Lo guardò e non riuscì a capire cosa volessero dirle i suoi occhi blu.  Dimenticando le buone maniere, lo allontanò da tutti i presenti e lo trascinò nell’anticamera. «Perché stai facendo questa farsa?».  Juan la fissò con tenerezza, poi le accarezzò il viso delicatamente: «Non è una farsa, vuoi sposarmi?».  A Isabella si gelò il sangue nelle vene; dividere la sua vita con lui sarebbe stato un sogno ma irrealizzabile.  «Non posso accettare».   Vide con orrore che la sua risposta non gli piacque, i suoi occhi divennero di ghiaccio.  «Allora ho frainteso i tuoi sentimenti!».  Ebbe il coraggio di confessargli: «Io ti amo, ma non posso sposarti perché  ciò che ti sto nascondendo, ti separerà da me. Conosco il tuo onore, se oggi ti dicessi di sì, ti condannerei a vivere con una persona che odieresti».   «Credi che il tuo passato possa avere importanza per me? Come puoi pensarlo dopo averti narrato il più atroce dei delitti?».   Se Isabella avesse continuato a dissentire, avrebbe aumentato la sua curiosità, così non le restò altro da dire: «Se alla fine di questo viaggio, dopo averti detto ciò che finora ho taciuto, riuscirai a perdonarmi, allora riparleremo di questa proposta».  Lo vide lottare contro la frustrazione: «Come vuoi tu».  Chiuse con uno scatto rabbioso la scatolina e le porse il braccio, quando Isabella poggiò le dita su di lui sentì tutta la sua tensione.    «Su forza sedetevi a tavola!». La voce di donna Paola sovrastò il frastuono dell’allegro chiacchierio dei bambini e degli adulti.  Isabella mangiò con poco appetito le pietanze che misero in tavola: le melanzane, insaporite con una salsa di pomodoro e basilico fresco; la frittata di peperoni. L’atmosfera era allegra, la tensione che vibrava tra Juan e Isabella era smorzata dai bambini, che parlavano continuamente, arrivando a bisticciare in alcuni momenti, ma subito la voce tonante di Donna Paola riportava l’armonia. Avevano appena finito di bere un liquore di limoni preparato dalla nonna, quando, dalle finestre aperte, sopraggiunsero il suono di una tromba e il rumore sordo di un tamburo. I bambini si precipitarono a vedere, seguiti dagli adulti. Al centro della piazza stava un banditore; l’uomo indossava una toga di velluto cremisi e sedeva su un cavallo adorno da una gualdrappa trapuntata con ricami in oro. Vicino, sempre a cavallo, c’erano i contestabili, che indossavano sopravvesti di damasco. I trombettieri e tamburini smisero di suonare, e un silenzio innaturale scese sulla piazza.   Il banditore spiegò una pergamena e poi lesse a gran voce: «De ordine ET de comandamento delle Rev. Inquisitori De Olloqui Ignazio e de Llanes Agostino…ché il giorno 21 del presente mese de luglio si celebrerà l’Acto seu spectaculo de la Sancta Fide in questa città di Palermo, nella strada del Cassaro, nella piazza Bologni. Tutti gli abitanti sono invitati a parteciparvi, al fine di ottenere indulgenze per i peccati commessi!». Non appena la voce del banditore si spense i tamburini cominciarono a battere le aste sul tamburo con suoni acuti. Poi lentamente il corteo s’inoltrò in un’altra strada. A poco a poco gli abitanti del quartiere rientrarono nelle loro dimore. L’allegro chiacchiericcio di poco prima non c’era più, gli uomini tornarono a sedersi, ma senza parlare, le donne cominciarono a riordinare. Anche i bambini erano silenziosi, come se avvertivano nell’aria che stava per accadere qualcosa di terribile. Poco dopo Juan e Isabella si congedarono.   
PER  CONTINUARE A LEGGERE   IL SEDICESIMO CAPITOLO DEL ROMANZO, CLICCATE QUI. 

APPUNTAMENTO A GIOVEDI' PROSSIMO PER I NUOVI CAPITOLI DE IL TESORO PIU' GRANDE! NON MANCATE!

IL TESORO PIU' GRANDE di Fabiola D'Amico ( Cap. 15 - 16 ) COSA PENSATE DI QUESTA STORIA? AVETE DOMANDE DA FARE ALL'AUTRICE? ASPETTIAMO DI LEGGERE I VOSTRI COMMENTI!


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog