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IL TESORO PIU' GRANDE di Fabiola D'Amico ( Cap. 19 - 20 )

Creato il 26 marzo 2011 da Francy
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IL TESORO PIU' GRANDE di Fabiola D'Amico ( Cap. 19 - 20 )
  Un calcio all’addome la risvegliò. Ancora frastornata, Isabella si portò la mano lì dove provava più dolore, ma un altro colpo la ferì; vide sopra di sé la figura del carceriere: «Alzatevi». Il tono dell’uomo era rabbioso.   Isabella si alzò con fatica e lo precedette nel corridoio. Era molto debole e camminava con passi infermi, così il guardiano era costretto a spingerla diverse volte, facendola cadere.   La condusse giù per una scala stretta e buia, illuminata dalla debole luce di una fiaccola. Isabella aveva l’impressione di camminare da ore, poi finalmente entrarono in una camera. Vi era un banco e, sopra questo, un campanello, un messale e una croce.   Isabella vide subito Don Gualtiero che si avvicinò con un sorriso di scherno sul viso.  «Mia cara, spero che abbiate dormito bene stanotte!».  Isabella si mostrò indifferente e chiamando a raccolta le sue ultime forze esclamò: «Notte tranquilla!».   L’uomo cambiò espressione, adesso era infuriato.  «Avete riflettuto su quello che ci siamo detti ieri?».    «Molto!». Isabella era sempre più sicura di sé.    «A quale conclusione siete arrivata?». Gualtiero vide scintillare negli occhi della donna sicurezza e spavalderia.    «Non so niente!».    «Stupida. Siete soltanto una sciocca esattamente come vostro padre. Tutto questo vi costerà caro!». Con rabbia si rivolse al carceriere, intimandogli di chiamare il tribunale.  In breve entrarono, nel loro splendore tre uomini: un Inquisitore, un predicatore, e uno scriba. I loro visi incutevano paura e sdegno. Isabella sorrise amaramente, le loro figure avrebbero dovuto confortarla e darle coraggio, invece ne era terrorizzata. Dio aveva mandato i suoi pastori, simili ad angeli, per mostrare la sua misericordia, e invece instillavano sgomento come i diavoli. Isabella guardò l’Inquisitore e le sembrò, nella sua veste sacra, un angelo, ma negli occhi, lo specchio dell’anima, lesse odio, cupidigia. Sembrava un angelo nero, un angelo maledetto. Rabbrividì inconsapevolmente.   Lo scriba accese dei lumi e tutto ebbe inizio.   Il predicatore disse: «Si apre in data 23 Luglio 1645, nel Santo Tribunale Inquisitorio, sito nel vice regno di Palermo, il processo contro la Contessa Isabella Torrelles, figlia dell’eretico Conte Carlos Torrelles, rilasciato al braccio secolare in data 21 Luglio 1645».    L’uomo si accostò a Isabella e la guidò verso il tavolo, poi disse: «Isabella Torrelles, giurate di dichiarare la verità, tutta la verità nel nome di Dio, Figlio e Spirito Santo? Giuratelo sulla Sacra Bibbia!».  Il predicatore mise la mano di Isabella sul fronte del libro, poi la fece inginocchiare dinanzi al crocefisso; infine la guidò al centro della stanza.  L’Inquisitore prese la parola rivolgendo a Isabella alcune domande: «Dove vi trovavate il 21 luglio 1645 alle ore sei del pomeriggio?».  Isabella si schiarì la voce prima di rispondere, mai prima di allora aveva avuto tanta paura. «Ero in piazza Bologni, qui nella città di Palermo».  L’uomo tornò a domandarle: «Per quale motivo vi trovavate nella piazza?».    «Dovevo assistere allo spettacolo». Isabella non sapeva che le sue risposte potevano essere fraintese.    «Per quale motivo dovevate assistere allo spettacolo?». La voce dell’Inquisitore divenne brusca.    «Io…. La chiesa vuole che vi si assista». Isabella ebbe un attimo d’incertezza.    «Ma voi lo ritenevate necessario?». L’uomo socchiuse gli occhi in maniera minacciosa.    «Non capisco la domanda!».    «Qual era il vostro intento quando avete deciso di partecipare a quel sacro incontro?». L’inquisitore si sporse lungo il tavolo, a quel gesto Isabella fece un passo indietro.    «Nessun intento!».     «Volete forse negare che siete giunta nella piazza con l’intenzione di salvare vostro padre, con ogni mezzo possibile?». La voce dell’uomo si fece più pressante.    «Io non sapevo che mio padre sarebbe morto!». Isabella rispose con foga.  L’inquisitore si consultò con lo scriba, borbottando e annuendo, poi prese dei fogli e si accinse a domandare a Isabella: «È vero che vi siete gettata sul fuoco per salvare vostro padre?».   Isabella rispose con voce impaurita:  «Sì!».    «Non avete temuto di bruciare i vostri vestiti, di bruciare voi stessa?». Quasi urlò quelle parole.    «Io non ho riflettuto».     «O forse avevate gettato un incantesimo sul vostro corpo affinché  non bruciasse tra le fiamme?». Gli occhi dell’inquisitore brillavano di malvagità.    «Non capisco cosa volete dire!».    «Strega, voi siete una strega. Signori, fratelli miei quella che abbiamo davanti è un’orribile creatura di satana! Guardatela, ha vissuto per due giorni nel digiuno, i topi l’hanno assalita, ma i carcerieri non hanno sentito le sue grida. Si è gettata sul fuoco senza alcuna paura. Questa è opera di satana! Il diavolo l’ha plasmata a suo piacimento, l’ha resa una creatura particolare che non potrà essere sconfitta neanche dal fuoco liberatore. Le sue sembianze angeliche sono una maschera, i suoi occhi nascondono la malvagità e l’odio per la Chiesa e per il Signore nostro Dio». Man mano che l’Inquisitore parlava, il tono si faceva più concitato, additava Isabella e la guardava con odio.   Isabella ascoltava le terribili e infondate accuse e ogni parola la colpiva dritta al cuore. Mai avrebbe potuto difendersi da quelle incriminazioni, che cosa avrebbe dovuto dire?    «Donna, noi siamo qui per ricondurvi alla casa del Signore nostro Dio. Riconoscete i peccati e chinatevi alla volontà del sovrano creatore!». L’inquisitore si avvicinò a Isabella con la croce in mano.    «Confessate i vostri peccati e chiedete perdono!».  Isabella non sapeva cosa dire, così rimase in silenzio. «Donna, in quali circostanze avete incontrato Satana? Avete avuto rapporti intimi con lui? Quali forme ha assunto per prendervi?». L’inquisitore abbassò il viso verso Isabella incutendo ancor più paura alla donna.    «Non so di cosa state parlando. Io non ho mai incontrato Satana». La voce di Isabella era appena un sussurro.    «Volete forse negare che vi siete gettata sul fuoco per salvare vostro padre?».    «No, non lo nego!».     «Ascoltate fratelli, la donna ha ammesso di essere guidata dalla mano di Satana!».    «No, non ho detto questo. Quel giorno ho agito d’impulso, non ho pensato alle conseguenze di quel gesto!». Isabella cercò di difendersi.    «Sentite, miei santi fratelli? Non ha pensato alle conseguenze di quel gesto! Ecco perché è stata scoperta, poiché ha agito senza un piano. Ecco perché è caduta nelle nostre mani, perché non ha riflettuto abbastanza!». L’Inquisitore le camminava intorno, avvicinandosi e allontanandosi.    «Non era quello che intendevo… ».     «Basta, abbiamo ascoltato abbastanza. Allora confessate i vostri peccati?!». L’uomo la guardò con occhi infiammati dalla rabbia.    «Io non ho nulla da confessare!». Isabella era sempre più intimorita.    «Boia, procedete alla tortura!».     Da un oscuro meandro, apparve un uomo incappucciato, tutto vestito di nero. Era un uomo grande e stringeva in mano una lunga corda, i suoi occhi erano freddi come il ghiaccio e guardarono Isabella con indifferenza. Un’altra stupida che avrebbe sofferto in nome della verità; quante vittime avevano torturato le sue mani? Un istintivo senso di compiacimento assalì l’uomo al pensiero delle urla della giovane donna. Quanto avrebbe resistito, cinque minuti, un quarto d’ora? Avrebbe assistito alla sua agonia con gioia.   Isabella rimase immobile, la figura dell’uomo era ancor più terrificante degli inquisitori, il suo aspetto era malvagio e presagiva dolore e morte.     «Allora non avete ancora cambiato idea? Non sarò più in grado di fermare quello che accadrà da questo momento in poi. Confessatemi, dove vostro padre ha nascosto quei documenti e sarete immediatamente liberata!». Isabella udì la voce dell’uomo con il quale aveva parlato il giorno prima e si volse a guardarlo.     «Non so nulla. Non vedevo mio padre da più di un anno».    «Smettetela, sappiamo che vi ha inviato una lettera. Parlate e sarete salva». L’uomo quasi gridò quelle parole.    «Non c’era scritto niente in quella lettera, erano semplici saluti». Isabella era in preda allo sconforto, ma non avrebbe ceduto alle loro manovre.    «Non mi lasciate altra scelta, il boia farà un buon lavoro!».  Isabella si volse a guardare le persone che le stavano intorno, torreggiavano su di lei rivolgendole uno sguardo malevolo.   Il boia si avvicinò e le ordinò: «Spogliatevi!». La voce del boia era fredda.  Con mani tremanti Isabella cominciò a sciogliere i nastri che legavano il busto, poi tolto il corpetto, si apprestò a levarsi la camicia e così gli altri indumenti fino a quando non fu nuda fino alla vita. A questo punto il boia le portò le mani sopra la testa, legandole con una corda. Poi si accinse a incatenare i piedi con una tavoletta, che chiuse con un catenaccio. Infine, nuda e infreddolita, alla mercé degli sguardi di quegli uomini senza pietà, mani e piedi legati, Isabella fu sollevata da terra. La fune pendeva dalla volta del carcere dentro una carrucola che comunicava con un grande argano, la cui manovella era mossa dal boia, il quale guardava gli inquisitori, pronto a eseguire i loro ordini, ma attento e gioioso di udire i lamenti della carcerata. Vicino sedeva uno scriba pronto a trascrivere sul suo taccuino i sospiri e i cambiamenti che già si avvistavano sul volto della giovane. La corda fu tesa leggermente, tanto che Isabella poteva ancora toccare con la punta dei piedi il pavimento.   L’Inquisitore tornò a rivolgerle delle domande, ma poiché Isabella continuava a non rispondere, ordinò al boia di tendere ancor di più la corda. Così la donna si ritrovò sospesa a fior di terra. Inizialmente provò dolore soltanto ai polsi, lì dove le corde erano legate, poi man mano che trascorrevano i minuti e il boia la sollevava sempre più da terra, cominciò a provare un forte dolore alle spalle, quasi sentiva le ossa muoversi e spostarsi al peso del suo corpo.   Ad aumentare il suo tormento, a un certo punto, il carnefice, le legò un peso alla tavoletta. A Isabella sembrava che da un momento all’altro le ossa avrebbero ceduto alla pressione del carico. Il dolore era così intenso da toglierle il respiro; mai una volta le sfuggì una sillaba, alcune volte il suo corpo tremò e il suo volto impallidì ma mai gli diede la soddisfazione di vederla gemere e invocare perdono.  Man mano che i minuti trascorrevano, le parole dell’Inquisitore le giungevano più lontani; quando il dolore s’intensificava il desiderio di chiedere perdono per colpe non commesse, diventava più grande, ma in quel momento di dolore l’anima di Isabella rivolgeva a Dio un grido di aiuto:     «In te mi rifugio, o Signore,  ch’io non sia confuso in eterno!  Scampami nella tua giustizia e liberami,   tendi verso di me il tuo orecchio e salvami.  Sii per me una rocca di scampo,   rifugio inaccessibile per la mia salvezza.  Sì, mia rupe e mia rocca tu sei!  Mio Dio, salvami dalla mano dell’empio,  dal potere del nemico e dell’oppressore.   Poiché  tu sei, o Signore, la mia speranza,   la mai fiducia, o Signore, sin dalla mai giovinezza.   Su di te mi sono appoggiato fin dal grembo materno;  dal seno di mai madre tu sei stato il mio sostegno;   per te di continuo è stata la mia lode.  O Dio, non ti allontanare da me;   mio Dio, affrettati in mio soccorso».  Quelle parole davano conforto e speranza a Isabella, che trovava così la forza per continuare a soffrire. Dentro di sé il suo pensiero correva al padre, che aveva subito torture simili.  L’Inquisitore la guardava in parte compiaciuto, in parte adirato. Trovava gioia a vedere soffrire, ma era impaurito dal coraggio della donna. Avvertiva in Isabella la stessa forza del padre, che non si era piegato al loro volere neanche quando sottoposto alle più terribili torture.   Per provare il coraggio della donna e per indurla a parlare, l’inquisitore lanciò uno sguardo al boia. Il carnefice capì al volo l’ordine del suo superiore e, in preda ad una forte eccitazione, prese una verga, appesa a un muro.   Isabella non si era accorta di quanto accadeva dietro di lei, così rimase del tutto impreparata al nuovo attacco che brutalmente si perpetuava a sue spese.   Il colpo la colpì alla schiena nuda, e il dolore la fece quasi svenire. A quel punto non poté trattenere un urlo di dolore che scosse persino quegli uomini abituati ad ascoltare i gemiti dei prigionieri anche per ore. In quell’unica invocazione c’era disperazione, rinuncia e sconfitta.   Con voce imperiosa l’Inquisitore tornò a chiedere a Isabella: «Confessate i vostri peccati. Abiurate le vostre colpe!».   Isabella volse lo sguardo intorno a sé, lacrime copiose le scendevano lungo le guance, annebbiandole la vista. Era pronta confessare qualunque cosa, anche ciò che ignorava. «Vi prego, abbiate pietà!».    «Parla e la vita ti sarà salvata!». Tornò a ripeterle l’Inquisitore.    «Io sono…». Stava per confessare di essere sposa di satana, quando vide lo sguardo di Don Gualtiero. Vi lesse vittoria e scherno. Mai e poi mai gli avrebbe ceduto, ripromise Isabella a se stessa, anche a costo della vita.     «Io sono innocente!».   E lo disse con tale determinazione che persino l’Inquisitore rimase sorpreso., ma non per molto, poiché un attimo dopo tornò a rivolgere al boia l’ordine di poc’anzi.   La verza percosse il corpo di Isabella più volte, fino a quando la donna non si abbandonò a se stessa.  Ormai non c’era più nulla da fare, in quelle condizioni non avrebbero ottenuto alcuna confessione.   Sdegnato, l’Inquisitore ordinò: «Conducetela nella fossa delle streghe e non datele più né da mangiare né da bere. Riportatela qui domani pomeriggio, quando sarà sottoposta alla tortura della sedia!».  Il carceriere rivestì Isabella, poi trascinandola la condusse nella sua nuova cella.     Il luogo era buio e umido. Nessun rumore si avvertiva, persino i topi avevano abbandonato quel posto, soltanto piccoli scarafaggi ogni tanto uscivano dalle fessure delle pareti, si guardavano intorno alla ricerca di qualcosa da mangiare, poi ritornavano nelle loro tane. Isabella giaceva a terra, il corpo intorpidito, la mente persa nei ricordi del passato. Le immagini della vita precedente la tormentavano mostrandole un mondo tranquillo, prima nella sua casa, tra gli amici, tra i suoi adorati alberi, poi nel vascello di Juan, stretta tra le sue braccia, con il viso rivolto verso la dolce brezza estiva. Nel tormento della prigionia ogni speranza era svanita, soltanto il passato alleviava le ore di solitudine e di dolore.   Qualunque uomo, donna che, per colpe non commesse e sconosciute, giungeva in quel luogo trovava crudeltà e perdeva ogni speranza, il giorno e la notte si confondevano, il tempo cessava di esistere; e in quel silenzio mortale ogni tanto si udiva un lamento, un gemito di dolore. Ah! Che conforto ascoltare un proprio simile gemere, sapere di non esser i soli a soffrire, ma quale tormento aspettare, invano, che la morte sopraggiunga a liberare il corpo. ...
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