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IL TESORO PIU' GRANDE di Fabiola D'Amico ( Cap. 7 - 8 )

Creato il 06 marzo 2011 da Francy
IL TESORO PIU' GRANDE di Fabiola D'Amico ( Cap. 7 - 8 )
IL TESORO PIU' GRANDE di Fabiola D'Amico ( Cap. 7 - 8 )
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  7  
   Juan con occhio inquieto scrutò nella profondità dell’oscuro nembo che lentamente, ma inesorabilmente, si avvicinava. Era nero e minaccioso. Le tenebre della notte scesero su di loro, oscurando il mare e il cielo. Un’improvvisa pioggia cominciò a scrosciare sui corpi leggermente protetti degli uomini. Secondo la posizione che aveva in precedenza rivelato, sapeva che a mezzo miglio a dritta si trovava la costa di Maiorca, e, prima che l’oscurità della notte li avvolgesse, l’aveva intravista. La bonaria invece li minacciava da sinistra. Doveva allontanarsi, e in fretta, dalle coste altrimenti avrebbero corso il rischio di infrangersi contro il fondale roccioso dell’isola. Juan ordinò di virare di bordo, puntando dritto contro la tempesta che andava profilandosi in tutta la sua forza.
  Infatti, le nere nubi si erano staccate dall’estremo orizzonte e correvano veloci verso il vascello; rapide e abbaglianti saette illuminarono come se fosse giorno, per brevi e interminabili secondi, la notte: erano soli nel mezzo di una tempesta.  Anche il mare, fino a quel momento calmo e plumbeo, cominciò a ribollire, a scuotersi, mosso dalla bufera che stava per scatenarsi contro il vascello.   Juan ordinò: «Tre mani di terzaroli». L’ordine fu prontamente eseguito e gli uomini ridussero la velatura dell’albero esterno, ma proprio in quel frangente una lingua di fuoco abbagliò l’equipaggio e il fulmine, scrosciando, esplose a poca distanza dal bordo. L’orizzonte sembrava squarciarsi e mostrava una linea di cavalloni dalle creste frangiate e biancastre. I cavalloni aumentavano sempre più e si dirigevano verso il vascello, spinti da un vento furioso che si era scatenato insieme al mare mosso e alla pioggia. Gli uomini agivano d’istinto, il rumore dell’acqua e del vento impediva a loro di udire gli ordini precisi che Juan gli impartiva. Il vento furibondo piombò sul traverso del vascello, che si piegò gemendo a quell’urto violento, immergendo profondamente tutto il fianco destro, prima che le altre vele fossero terzarolate. Tutti gli uomini furono spinti verso destra, scivolando sul ponte e, soltanto, il parapetto e le corde che avevano stretto alla vita gli impedirono di precipitare in mare. In quel momento un’altra ondata riportò la nave nella sua posizione naturale: molti uomini furono trascinati per il perimetro della nave. Juan si precipitò ad aiutare gli uomini ad ammainare la vela, ma un altro fulmine che aveva squarciato il cielo, questa volta colpì una vela, spezzandola in due parti.
  Isabella si era seduta sul letto, aspettando l’arrivo della tempesta. Sentiva i passi affrettati degli uomini sul ponte e udiva gli ordini di Juan. Ad un tratto la stanza fu illuminata da un fulmine e poi un tuono rimbombò vicino. Il suono era stato così prepotente che a Isabella parve che il cielo si squarciasse e gli piombasse addosso. Si rannicchiò sul letto, aspettando l’arrivo di un altro fulmine; un vento forte cominciò a sibilare nella stanza, simile all’ululato di un lupo inferocito che avverte la preda che è vicina e si prepara a saltargli addosso. Isabella s’impose di restare calma e si concentrò sui suoni provenienti dall’alto. Era così concentrata che rimase del tutto impreparata all’urto delle onde sul fianco del vascello: fu scaraventata fuori dal letto, sbatté la testa contro la scrivania e un dolore acuto le tolse il respiro. Il poco mobilio non saldato della cabina si trascinò nella parte destra della camera, parecchi libri rotolarono sul pavimento della stanza e il corpo di Isabella fu ricoperto da diversi oggetti. Si toccò la fronte e ritirò la mano umida di sangue: la ferita alla fronte si era riaperta. Stava cercando di rialzarsi quando il vascello si mosse di nuovo ondeggiando pericolosamente e spingendola verso l’altra parte della stanza. Cercò di aggrapparsi alla scrivania, ma perse la presa fu trascinata verso sinistra. Un lampo tornò a illuminare la stanza e Isabella poté rendersi conto della sua situazione. Facendo forza sulle braccia si alzò, barcollava sia per l’urto subito sia per il movimento del vascello. Non posso restare qui, pensò impaurita. Facendo appello a tutte le sue forze, spostò gli oggetti che le impedivano di uscire dalla stanza e corse verso il ponte. Fu subito investita da un’onda che la bagnò del tutto e la fece cadere all’indietro.   Si guardò intorno ma non vedeva altro che ombre che si muovevano concitatamente; cercò di chiamare ma la sua voce si perse nel vento. Si alzò a fatica e in quel momento un fulmine cadde sul ponte del vascello colpendo una vela.    «Ammainare il picco!». L’ordine di Juan fu udito soltanto dagli uomini vicini.     «È impossibile, non riusciamo a tirare giù la parte superiore della vela!». Rispose uno dei mariani.   Il fulmine aveva squarciato la vela in due parti e l’estremità superiore era alla mercé del vento. «Dobbiamo ridurre la velatura altrimenti rischiamo di capovolgerci nuovamente. Leandro, dì a Felipe di cambiare rotta!». Juan si legò una corda alla vita e cominciò a salire lungo le sartie.    Isabella cercò di portarsi vicino a Juan, che aveva visto sotto un albero. Poiché era caduta diverse volte, decise di avvicinarsi in ginocchio. Stava per raggiungerlo quando lui cominciò a salire lungo il sartiame. Mio Dio, cosa vuol fare? Disse tra sé. «Juan!», urlò disperatamente, ma nessuno la udì.     «Senora, cosa fate qui? È troppo pericoloso, ritornate in cabina!». Il giovane Leandro la aiutò ad alzarsi.     «Che cosa sta facendo?». Isabella non riusciva distogliere lo sguardo da Juan, che nel frattempo aveva raggiunto le corde e aveva cominciato a tagliarle.     «Deve ridurre la velatura altrimenti rischiamo di capovolgerci». In quel momento nuove onde andarono a sbattere contro lo scafo del vascello. Il vento aumentò d’intensità e la vela girò su se stessa. Juan perdette l’equilibrio e sarebbe precipitato in mare, se la corda non si fosse impigliata all’albero. Facendosi forza sulle braccia riuscì ad aggrapparsi alle sartie e ricominciò a salire.     «Forza, portiamoci dall’altra parte del ponte, spostate i carichi». A quell’ordine, tutti i marinai cominciarono a spostarsi verso l’altra parte della nave. Isabella seguì Leandro, aiutandolo a trasportare delle casse. Nel frattempo Juan era riuscito a tagliare tutte le corde e la vela era precipitata sul ponte. Tornò rapidamente giù e si portò al timone per dare il cambio a Felipe. Le raffiche furiose si succedevano senza posa; rapidi baleni accecavano i loro occhi con i loro vividi splendori che rendevano più fosca l’oscurità che li avvolgeva subito dopo. Una pioggia torrenziale e furiosa si riversò sui corpi già fradici.   L’acqua del mare aveva invaso il ponte e il suo peso rischiava di far affondare il vascello, tutti gli uomini disponibili cominciarono a riempire secchi per liberare la nave. Sembrava un gesto inutile, poiché il mare ne gettava sul ponte in quantità maggiori di quelle che i poveri marinai ne buttavano. Isabella si unì a quegli uomini. Lavorava con velocità eseguendo gli ordini che Leandro le impartiva. In quel momento la sua mente era sgombra da qualsiasi pensiero, da quando era giunta la lettera del padre era la prima volta che aveva altro cui pensare. Riuscire a uscire da quella tempesta era l’unica preoccupazione.     Tutto era nero e buio, lo sguardo di Juan frugava inutilmente nella folta cortina che oscurava la notte. Almeno non doveva preoccuparsi di finire contro le rocce. Per fortuna ci siamo allontanati dalle coste, pensò.   Un altro lampo illuminò il ponte del vascello mostrandogli la situazione disastrosa in cui versava. Soltanto in quel momento si accorse di Isabella che riempiva i secchi e li porgeva ai marinai che li svuotavano in mare. «Che diavolo ci fa quassù?». Gridò a Felipe.     «È qui da molto tempo, è stata scaraventata fuori dal letto quando il vascello si è inclinato, così ha deciso di salire in coperta». La risposta di Felipe non lo tranquillizzò. Lì sul ponte correva pericoli ben maggiori.  «Falla tornare giù!».    «Lasciala stare, ci sta dando una mano. Non preoccuparti ho chiesto a Leandro di starle vicino».   Juan capì che non era il momento adatto per mettersi a discutere, ma dentro di sé provò una strana sensazione al pensiero che potesse accaderle qualcosa. Da quel momento cercò di non perderla di vista neanche per un istante, per quanto l’oscurità della notte glielo permetteva. Aspettava il rapido guizzare dei lampi per vederla e ogni volta che la avvistava, tirava un sospiro di sollievo. Stava quasi per lasciare il timone quando la vide vacillare e andare a sbattere contro il parapetto. Soltanto la rapidità con cui si alzò lo fece desistere da quell’idea assurda che sarebbe potuta costare la vita a tutti loro. Il vento continuava a infuriare, ostacolando le manovre che gli uomini facevano per salvarsi la vita, ormai si era allo stremo delle forze. Juan aveva le braccia rigide, per l’energia con cui doveva tenere il timone in rotta. Il vascello si alzava rapido sulle onde, cadeva fragorosamente sulle acque, aprendosi un varco tra gli spumanti marosi. A poco a poco la lotta degli elementi diminuì, la furia della tramontana andò a scaricarsi sulle coste e d’improvviso il vascello rimase fermo, immobile sotto una pioggia torrenziale. Tutto l’equipaggio si fermò, non potendo credere di essere sfuggiti alla furia terribile di quell’uragano. Molti di loro rivolsero una preghiera al cielo, ringraziando il creatore di avergli salvato la vita. Isabella cadde sulle ginocchia con il viso alto, lasciando che la pioggia la pulisse dall’acqua salmastra. Mai come allora aveva creduto di morire, sentiva l’acqua penetrarle dentro le ossa, avvertiva il freddo ma era felice, perché se provava quei disagi, allora era viva.   D’improvviso, alcuni uomini intorno a lei, s’inginocchiarono mettendosi a pregare, additando verso l’alto. Isabella si volse a guardare e vide apparire in mezzo all’oscurità, sulla punta di un albero, una lingua di fuoco. I marinai lanciarono un unico urlo: «S. Elmo abbi pietà di noi, salvaci!». Poi cominciarono a intonare litanie e preghiere. Isabella si volse a cercare Leandro, ma questi sembrava in estasi, guardava la piccola fiamma e invocava aiuto.    «Leandro! Sbrigati, dobbiamo spegnere il fuoco!». Isabella si alzò cercando i secchi che fino a poco prima riempivano d’acqua, ma il giovane la fermò: «È tutto inutile. Quello è S. Elmo, è venuto a dirci che non può salvarci. Siamo sopravvissuti alla tempesta, ma non scamperemo al naufragio. Prega prega per le nostre anime!».  Isabella si divincolò dalla stretta di Leandro e andò a cercare Juan. Quello che Leandro le aveva detto era incomprensibile, stavano rischiando di andare a fuoco e loro pensavano a pregare! Quasi si scontrò con Juan che stava scendendo la piccola scala che dal cassero portava al ponte più basso. «Isabella state bene? Stavo venendo a cercarvi!».    «Capitano, l’albero maestro sta andando a fuoco, ma i marinai non fanno nulla. Sono come impazziti, blaterano di un santo e di come moriranno!».  Juan si voltò a guardare l’albero che rapidamente stava prendendo fuoco. Corse verso i secchi di acqua e cominciò a gettarli verso la fiamma. Purtroppo l’incendio era troppo alto, così i suoi primi tentativi furono inutili. Stava cercando altra acqua, quando Isabella gli fu al fianco con due secchi pieni. Con uno di quelli in mano, s’issò sulle sartie e iniziò la salita; Isabella gli andò dietro, reggendo con una mano il secchio e con l’altra aiutandosi ad arrampicarsi. Juan versò il contenuto di entrambi secchi, poi tornò a scendere dietro a Isabella ma fece solo alcuni passi perché sotto di lui vi erano altri uomini. Ben presto riuscirono a spegnere il fuoco.  Quando Juan riprese fiato, non poté trattenersi dal gridare: «Siete degli stupidi creduloni! Credevate davvero che quella lingua di fuoco fosse un santo? Ancora un po’ e non saremmo stati in grado di spegnere quell’incendio. Era questo che volevate, scampare a un annegamento per morire bruciati?».  Molti uomini si scusarono, altri non risposero. Il loro comportamento era legato a un’antica leggenda che i marinai si tramandavano di generazione in generazione. Essa raccontava che la lingua di fuoco che appariva all’improvviso fosse il corpo di S. Elmo, protettore dei marinai, il quale non potendo più intercedere per essi dall’alto, scendeva sotto quella forma ad avvertire le ciurme del loro prossimo naufragio.   Juan vide riflessa negli occhi della sua ciurma la stanchezza e la paura, così, in tono più blando, gli disse: «È con queste facce che si festeggia la salvezza?». Alle sue parole, tra gli uomini scoppiò un urlo di gioia e, preso Juan, lo issarono sulle loro spalle.   Quando lo misero giù, si rivolse ancora a loro e disse: «Non è solo a me che dovete la vostra gratitudine… tutti noi abbiamo fatto qualcosa per salvarci, persino chi non doveva farlo…!». Il modo in cui guardò Isabella era chiarissimo: l’avrebbe sculacciata per aver messo in pericolo la sua vita ma le era riconoscente, più di quanto avrebbe ammesso. ...
  
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