“IL TESTAMENTO DI VANTO’”, Il nuovo romanzo di M. Barbera
Scritto da Dino Chiruzzi
Dopo poco più di due anni ci incontriamo di nuovo con Michele Barbera, l’avvocato menfitano che nutre un’autentica passione per la scrittura, ormai ampiamente consolidata in una produzione che si arricchisce col passare del tempo sempre di più. L’occasione è la presentazione del suo nuovo romanzo, dal titolo accattivante e curioso: “Il testamento di Vantò”. Ed ecco la nostra intervista. La prima domanda sorge, direbbe qualcuno, spontanea: chi è Vantò?
Senza scendere nel merito del romanzo posso dire che Vantò è uno spirito siciliano. Incarna la contraddizione dell’essere, la determinazione caparbia dell’eroe onesto, la volontà solidale di aiuto ai deboli pur nell’ottusità miope di chi governa. Insomma, forse la parte migliore del popolo siciliano.
Il romanzo ruota attorno alla “roba” che in quanto a sicilianità ha precedenti illustri…
Sì, in effetti, il testamento, la roba, hanno nel surrealismo tragico pirandelliano enel verismo verghiano, un ruolo da protagonisti nel muovere e governare la vita del siciliano. Ma, contrariamente a quel che si pensa, la “roba” non è solo un concetto materiale, ma è una metafora esistenziale. Chi ha la roba diventa temuto, rispettato, onorato. Allora dalla prospettiva dell’avere, la questione si trasferisce all’essere. Se si guarda alle origini della mafia, quella dei latifondi, i gabelloti, le stesse baronie, hanno origine da un sistematico accaparramento di roba, anche violento e sopraffattorio, che garantiva al gabelloto il successivo stato di “signore”. Dall’avere all’essere, ripeto. Ma questa è un’altra storia.
Ritornando al romanzo, lo stile risulta particolarmente scorrevole, anche se ricco di citazioni colte: un matrimonio di stile?
Lì è il lettore che dovrà giudicare. Ho cercato, anche con chi ha fatto l’editing, di offrire una lettura piacevole ma non per questo ho voluto rinunciare a fare, scusa l’immodestia, nel mio piccolo, “letteratura”, cioè formare il lettore, non semplicemente informare. La storia letteraria è piena di pietre miliari che spesso, sono ingiustamente ignorate in nome di un modernismo che spesso è sinonimo di superficialità. Ed, invece, è bello riscoprire i classici, assaggiarli, quasi degustarli come un buon vino invecchiato, prezioso e raro. Solo il tempo dirà se questo matrimonio è riuscito!
Domanda secca: come è nato “Il testamento di Vantò”? Fra l’altro è assai differente per ambientazione al precedente “Esame incrociato”…
E’ vero, si tratta di due romanzi completamente differenti, ma entrambi hanno un comune denominatore nella Sicilia. Vero è che certi personaggi del complicato intreccio di Esame incrociato potrebbero stare benissimo ne “Il testamento di Vantò”. Cambia naturalmente lo stile e la struttura stessa del romanzo. Da una certa logicità e coerenza propria dello stile “legal”, si passa ne “Il testamento di Vantò” ad un susseguirsi di circostanze a geometria variabile che si rincorrono e, a tratti, si sovrappongono. Ne esce fuori una tavolozza variopinta in cui i colori originari si stemperano e sfumano, fondendosi l’uno con l’altro.
Parliamo della trama. Nel romanzo Vantò è vittima ed artefice del suo stesso inganno…
Ti voglio precedere. “Il testamento di Vantò” non ha una trama in senso stretto. Chi legge il romanzo segue una scia temporale, nel senso di avvenimenti che si susseguono in una serie di intrecci ma, in realtà, più che di una trama “storica”, mi piace parlare di un pirandelliano confronto di personaggi, un confronto dal quale ognuno può trarre le proprie conclusioni. Lo stesso protagonista non è fine a se stesso, ma è plasmato dalla continua interazione con gli altri soggetti della vicenda.
Nel romanzo ha una parte fondamentale l’incontro di Vantò con i rom. C’è qualcosa di autobiografico in questo?
Ritengo, comunque, che ci sia sempre qualcosa di autobiografico, anche a livello inconscio, in quello che si scrive e, più in generale, si realizza artisticamente. In effetti, diversi anni fa mi occupai di un caso in cui era coinvolta una famiglia rom. Non ti nascondo che mi sono dovuto recare, all’inizio con una certa apprensione, poi con naturalezza a visitare diverse volte un campo rom. Da lì una conoscenza che mi ha colpito. Per il libro mi ha aiutato molto il contatto con un paio di ragazzi ed il colloquio con un anziano di Agrigento che vantava ascendenze rom. Poi, tanto studio su una civiltà che è sui generis rispetto alla nostra tradizione culturale.
La questione dei rom e dei pregiudizi su di loro nel romanzo è affrontata sotto aspetti drammatici. Pensi che avrà una soluzione?
E’ difficile dirlo. I rom sono un popolo per certi versi contraddittorio e quantomai variegato. Per molti versi è saldamente unito e tipizzato da un sostrato di valori immateriale, ancestrale, per altri aspetti ogni clan riconosce e pratica usanze e regole che sono diverse rispetto ad altri. Del resto, i rom sono il crogiolo di diverse etnie, contaminati da innesti socio-culturali con i popoli stanziali dei continenti attraversati nei secoli dalle loro carovane. Non è semplice che i rom rinuncino a quello che considerano il loro bene più prezioso e congenito: la libertà del nomadismo, inteso come logica di vita. L’integrazione passa da lì. E non è facile.
Domanda finale, anche questa scontata: a quando il prossimo romanzo? Ci puoi dare qualche anticipazione?
Mi metti in imbarazzo, perché è l’unica domanda alla quale sul serio non so risponderti. Tra “Esame incrociato” ed “Il testamento di Vantò” ho fatto diverse, o meglio scritto, altre cose che potrebbero evolversi in un romanzo. Ma sono, come si dice, a lenta gestazione. Poi dipende dal tempo che avrò e… dalla pazienza dei lettori, oltre che dal loro gradimento.