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Il tiqui-taca operaio

Creato il 11 agosto 2013 da Calcioromantico @CalcioRomantico

xavi-iniesta_2263497bNegli ultimi anni il calcio basato su percentuali bulgare di possesso palla è una prerogativa delle nuove superstar del pallone. Superfluo menzionare il Barcellona e la nazionale spagnola, ormai siamo anche troppo abituati a vedere Xavi, Iniesta e compagni che tramite passaggi corti, precisi, fisicamente e mentalmente snervanti per gli avversari attendono lo spazio giusto per spaccare le difese e mettere in porta la punta di turno.  Xavi riassume questo stile di gioco, che ora in molti chiamano tiqui-taca [1], con «ricevo la palla, passo, ho la palla, passo, ho la palla, passo, ho la palla, passo»; meglio di lui si è espresso Raphael Honigstein, giornalista sportivo del Guardian e della Süddeutsche Zeitung: «è una tattica così devastante perché è difensiva e offensiva allo stesso tempo (…), una significativa evoluzione del “calcio totale” olandese che si basava sul cambio di posizione da parte dei calciatori. Gli spagnoli però non devono fare questo sforzo, perché è la palla che si muove in continuazione e fa tutto il lavoro sporco». Lo sforzo infatti -aggiungiamo- quasi sempre lo fanno più che altro gli avversari.

Però il suddetto tiqui-taca a cavallo tra anni sessanta e settanta si chiamava “gioco corto”, e non c’erano certo di mezzo superstar. Anzi, ha caratterizzato una squadra di “gregari” in una città operaia per antonomasia. Parliamo della Ternana guidata da Corrado Viciani, che di necessità ha fatto virtù: citando Luigi Cavallaro, «quella squadra era fatta di giocatori scarsi. Viciani, così, li obbligava a giocare con passaggi brevi per muoversi, tutti insieme, verso la porta avversaria». Perché secondo l’allenatore di Castiglion Fiorentino «a passare la palla a quattro-cinque metri sono capaci tutti, invece i lanci lunghi non servono a nulla, hanno inventato il libero proprio per intercettarli»; in più egli sosteneva che «se la palla ce l’hai sempre tu, è più facile che riesca a far gol». Che poi è un po’ quello che ti viene in mente guardando le partite del Barcellona e della nazionale spagnola, quindi la storia pare gli stia dando ragione.

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Ovviamente non si stanno paragonando le moderne squadre schiacciasassi alla Ternana di quarant’anni fa, perché le differenze sono evidenti. A partire dal fatto che -anche e soprattutto per le citate ragioni di tecnica individuale- nelle Fere di Viciani il lavoro sporco lo dovevano fare i giocatori, non il pallone. Il gioco si sviluppava “a fisarmonica”, cioè con più uomini possibili intorno alla palla in fase offensiva e raddoppiando se non triplicando in fase difensiva: solo così il meccanismo poteva essere perfetto. In ciò va da sé che la preparazione atletica fosse fondamentale, e infatti spesso i giocatori si lamentavano dei massacranti metodi di allenamento (azzardiamo zemaniani ante-litteram). Sono mancati poi i risultati, perché è vero che in cinque anni le Fere sono balzate dalla serie C alla serie A, ma è anche vero che una volta approdate nella massima categoria hanno chiuso la stagione all’ultimo posto in classifica nonostante un girone di andata promettente in cui hanno anche sfoggiato prestazioni maiuscole. Ad esempio, dopo la partita giocata all’Olimpico contro la Lazio il 20 febbraio 1972 [2], Francesco Rossi de Il Messaggero ha scritto che «il gioco della Ternana dava la sensazione di fluire con la semplice naturalezza di una forza della natura, come il salto d’acqua della cascata delle Marmore, e la squadra di Viciani ha finito per incantare tutti».

Infatti quella Ternana -che giocava nel nuovissimo stadio Liberati, inaugurato in pompa magna nel 1969 giocando contro il Palmeiras-  ha stregato sia gli amanti del calcio che gli “addetti ai lavori”, ma la cosa più importante è che ha fatto sognare una città che se lo meritava, mettendo sul campo un’umiltà e una determinazione tipicamente operaie, quando ancora si poteva parlare di classe operaia e quando questa poteva sentirsi in paradiso. La chiave di lettura giusta l’ha trovata Maurizio Barendson, all’epoca responsabile dei servizi sportivi della Rai, affermando che «poche volte si è visto assomigliare una squadra al proprio ambiente come è avvenuto a Terni».

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[1] Questa espressione è stata resa famosa nel 2006 dal giornalista spagnolo Andrés Montes, anche se era già un termine gergale utilizzato per indicare lo stile di gioco del Barcellona.

[2] Quella partita finì 1-1. Passò in vantaggio la Ternana con Marchetti al 10′ e poi pareggiò Chinaglia al 69′ siglando un rigore generosamente concesso dall’arbitro Monti.


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