In Biscotti e sospetti di Stefania Bertola a un certo punto si legge:
Considerava tutto questo sommamente ingiusto, una perfidia di cui non avrebbe mai creduto capace la sua Violetta, una ragazza dolce come il torrone…
Ecco. Il torrone.
Chi conosce me, conosce anche il torrone.
Ora, la ricetta del torrone non si può condividere. Non perché sia un segreto, ma perché non è la sua ricetta a renderlo quello che è.
Acqua, zucchero, nocciole e cioccolata.
E poi tradizione di famiglia, amore, passione, fatica e rispetto.
Ogni anno, ai primi di novembre, avviene il miracolo. Nelle case della mia famiglia paterna succede che a un certo punto ci mettiamo a fare il torrone. Perché mio nonno era ‘torronaro’.
Avete presente le bancarelle delle feste paesane dove vendono le ‘mennole atterrate’, le caramelle gommose e il torrone, appunto? Ecco. Quelle sono le mie origini. Mio nonno il torrone lo faceva lui. E tutti i suoi figli hanno imparato a farlo.
Uomini che per la maggior parte dell’anno non si sanno fare neanche un piatto di pasta, ai primi di novembre diventano i protagonisti e i signori della cucina.
Da bambina ero incantata.
Mio padre (che secondo me fa il torrone più buono di tutti i suoi fratelli, ma sono molto di parte, lo ammetto) a un certo punto tira fuori le ‘sferre’, che sono dei coltelli larghi lunghissimi, un piano di marmo e un pentolone.
Cosparge il piano e i coltelli di olio di oliva. E poi comincia quelle che si chiamano le ‘cotte’. La prima cotta, la seconda cotta e così via…
Il profumo.
Quello è uno dei primi profumi che ricordo. Il caramello.
Si sente dalla strada. I pomeriggi si riempiono di questo aroma dolce. I vicini capiscono cosa sta per succedere. Tutti lo sanno e tutti sono felici, perché assaggeranno il miracolo. Il profumo del caramello non mi ricorda solo il Natale, ma la preparazione al Natale. Il viaggio, che tante volte è meglio dell’arrivo. È il profumo della mia famiglia.
Noi sappiamo di caramello.
Mio padre e la sua voce che canticchia vecchie canzoni (perché nella mia famiglia oltre a fare il torrone, si canta pure, ma questa è un’altra storia). Sorride, dice “mannagg a’ bubbà!” se qualcosa va storto. E che mi chiede di aiutarlo, dopo, con la cioccolata.
Poi il rumore delle ‘sferre’ sul marmo. Che girano e rigirano la cotta di nocciole e caramello. Che mischiano, ballano e fanno quel rumore che è una melodia, un suono che saprei riconoscere tra mille. I colpi secchi, dati al momento giusto. La forza necessaria nelle mani e negli occhi di chi ci sta lavorando. Quel momento lì è quello fondamentale. Se non capisci come fare, se non ne sei testimone, non saprai mai fare il torrone.
È una danza d’amore.
Quando la cotta è pronta, c’è il taglio dei torroncini. E io adoro quei torroncini appena nati, morbidissimi, senza il cioccolato. Devono essere tutti della stessa misura. Quando ancora stavo a casa, e ancora oggi quando sono di passaggio nel periodo del torrone, quelli che venivano scartati erano il mio premio. Gli scarti erano quelli che preferivo di più. Imprecisi, solo desiderosi di essere apprezzati lo stesso. Più buoni, secondo me.
Arriva poi il momento di un altro profumo, quello del cioccolato fondente che si scioglie a bagnomaria. Questa fase è di pura manovalanza. Se non capisci a che cosa stai partecipando, è una noia mortale. Bisogna tuffare un torronicino alla volta nella cioccolata…
Se sei un bambino ti diverti. Se lo fai da grande, sai cosa diventeranno i tuoi torroncini, e quindi ti sottoponi docile al rituale. È il cioccolato che sceglie per te.
Con gli anni il mio papà si è modernizzato e quindi ha cambiato anche tipo di confezione. Ma nei miei ricordi resterà per sempre quella carta bianca con le stelline dorate, che accompagnava tutto il processo. Una ‘guantarella’ così incartata , in un modo strano per il quale non c’era bisogno di usare nastro adesiva e colla, per me è la vera e sola guantarella di torrone.
Sento il profumo del torrone e sento la mia infanzia, la mia stessa vita. Penso che ora a fare il torrone ci sono i miei cugini, penso che mio padre, stanco e scoraggiato dai casi della vita, ancora si attiene al rituale. Ogni anno, inevitabilmente.
Sono sicura che non lo faccia solo perché deve. Lo fa perché ama farlo, perché in quel momento lui è il creatore di un miracolo che non è solo bontà, ma che rende felici le persone. Io il luccichio negli occhi delle persone quando assaggiano il torrone l’ho visto, lo vedo. In ogni parte d’Italia. E lo so che è così.
Penso al torrone e so che ne ho ancora di strada da fare.
Penso a me bambina, con la coda e la frangetta, che osservo con le braccia conserte mio padre che lavora alle nocciole con lo zucchero. E poi ora, ancora con la coda e la frangetta, penso a mio padre lontano che con gli stessi gesti lavora e lavora. Certe cose non cambiano mai. E continuano a renderci felici.
Ed è per questo che non perdo la speranza. Per mio padre, mio nonno, i miei zii deve essere una vittoria solo l’aver inspirato in me tanta speranza da così poco.
E perché poi devo avere speranza, devo avere ancora tempo.
Perché io il torrone non so ancora farlo.
E prima o poi devo imparare.