Nei giorni scorsi ho parlato della visita ufficiale in Turchia – la sua prima all’estero – del presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud e ho colto l’occasione per spiegare in cosa consiste la strategia africana di Ankara: (mi cito) che ha come obiettivo di fondo, nelle intenzioni del ministro degli esteri Davutoğlu, la trasformazione della Turchia nel centro geopolitico del continente afro-eurasiatico. Questa strategia è stata inaugurata nel 2005, l’Anno dell’Africa in Turchia: il preludio per il Turkey-African Cooperation Summit del 2008 a Istanbul, istituito con cadenza quinquennale come momento di confronto ai massimi livelli politici sui risultati effettivamente raggiunti. Soprattutto, la Turchia si è fatta paladina dei cosiddetti “stati meno sviluppati”, per la maggior parte africani: ne ha ospitato nel 2011 la quarta conferenza sotto l’egida delle Nazioni Unite, ha confezionato un pacchetto decennale di aiuti che ammonta a tre miliardi di dollari, vuole diventare il loro portavoce in tutti i consessi internazionali e ha già proposto per il G20 del 2015 – quando sarà presidente di turno – un tavolo congiunto G20-Ldc. Secondo il presidente Gül, si tratta di “una strategia integrata per contribuire alla crescita e allo sviluppo dell’Africa”.
A conferma di quanto sia importante l’Africa per la Turchia – non meno dell’Europa, dell’Asia centrale e del Medio oriente – arriva un nuovo viaggio di Erdoğan, ufficialmente annunciato: dal 7 all’11 gennaio, con tappe in Gabon, in Niger, in Senegal. Al di là di quello che pensano alcuni sciagurati colleghi, la Turchia non ha nessunissima intenzione di cambiare la propria politica estera: che continua a dare, nel complesso, risultati eccellenti (che non vuol dire eccellenti in tutti i casi).
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