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Il Tour, Sarajevo, la guerra e la libertà.

Creato il 12 luglio 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Era il ventotto giugno del 1914. A Saint Cloud cominciava il Tour de France, a Sarajevo sparavano all’Arciduca Francesco. Quel colpo di pistola avrebbe deciso il destino di milioni di altri ragazzi in tutto il mondo. Quel Tour sarebbe stato l’ultimo prima di quei quattro anni tremendi di guerra.
Comincia tutto a Sarajevo che è una città che amo prima ancora di averla vista. Merito del fascino di un libro e della mia fissazione per certi luoghi che mi chiamano come se avessero qualcosa di importante da dirmi. Ci penso spesso. Penso ai palazzi che hanno ancora i segni della guerra, dell’altra guerra, quella che è cominciata nella primavera del ’92, quando io avevo appena un anno. Al dì là del nostro mare e delle nostre certezze, delle nostre comodità.
L’assedio.
Improvviso, da un giorno all’altro, i cecchini che sparano sulla gente come conigli, il sangue dei bambini, dei vecchi che non possono correre, non possono scappare. L’inverno e il cibo che non c’è, case come prigioni, in balia delle granate. E i cimiteri che si riempiono: croci, infinite croci, con lo stesso anno inciso sopra. Manciate di vite. Come quelle che il Tour sta attraversando in questi giorni nei luoghi dove il conflitto del 14-18 ha falciato le esistenze. Croci e croci bianche a testimonianza della nostra umanità persa.
sarajevo (1)
Il ciclismo è uno sport che non dimentica niente. Attraversa strade sempre nuove ma si ricorda tutto.
Cent’anni fa, durante quegli anni, l’avevano zittito perché urlava il conflitto. Ed era un po’ come un coprifuoco, come spegnere le luci per la paura, come mettere a tacere la libertà. Sì, perché con la bicicletta si va lontano con le sole tue forze. Due ruote, il tempo, la pioggia, il sole, il mondo che scorre alla velocità che decidi tu. E’ libertà. Essere liberi.
Com’era essere chiusi nelle trincee e non avere la libertà di pensare a domani? Com’era Sarajevo quando quei buchi nei muri erano fumanti di colpi recenti? Com’era non essere liberi di uscire da quella città attorniata da colline silenziose piene di cecchini? Perché la guerra è guerra. Anche oggi, in Palestina, dove buttano bombe e noi non ne sentiamo nemmeno l’eco. Siamo troppo impegnati qui, con quello che noi crediamo libertà: fare jogging al mattino, portare fuori il cane, uscire per l’aperitivo.
Il ciclismo è uno sport che nel suo entusiasmo ti costringe a guardarti dentro, un po’ come certi libri che apriamo per caso, li leggiamo tutti d’un fiato e ci accorgiamo che volevano dirci qualcosa di più profondo, qualcosa che va oltre quelle righe e prende i contorni netti della realtà. Le biciclette passano attraverso quei luoghi e un po’ ci scuotono dentro. Ci passano attraverso, anche per un attimo, ed è come se a quelle ferite che gli avvenimenti hanno lasciato, dessero una carezza. La loro personale carezza: fragorosa come la gente che aspetta a bordo strada, silenziosa come gli ultimi in fondo al gruppo, furiosa come chi sta lottando in fuga contro il tempo. E’ successo così anche quando il Giro è passato nella terra martoriata dal terremoto. Basta un attimo per far capire che quel passaggio è più vero e intenso di tutti i minuti canonici che rispettiamo per le commemorazioni.

Sarajevo è ancora uno strano punto fermo. Volim te iskeno è l’unica cosa che so e significa “ti amo sinceramente”. L’amore, ma non quello assurdo che noi crediamo vero, fa muovere i passi giusti sulla strada giusta. L’amore per quello che facciamo, per quello che siamo nelle viscere profonde di noi stessi. Che sia pedalare o scrivere. Una volta di più, una volta ancora il ciclismo mi ha sussurrato involontariamente che bisogna ascoltare bene i luoghi che ci chiamano. Sono quelli che ci restituiscono l’umanità che perdiamo tra le troppe cose e ci insegnano cos’è e quanto costa la libertà.

2014 Tour de France - Stage   7

PS: l’ultima foto è da Brakethrough Media. I loro scatti sono tra i miei preferiti.



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