Ciò che ha certamente impressionato di più ai Mondiali di sci di Schladming in Austria appena conclusi è stato lo stadio. Un vero stadio costruito tra una montagna e un paese invadente. Una sfida tecnologica e ingegneristica. Il risultato è stato una specie di quadro di Escher che per due settimane ha accolto un pubblico festoso e colorato. 28 mila posti nelle strutture montate, più circa altri 4000 alla stazione intermedia e altri 4000 su scalinate di neve sopra la spettacolare e immensa tribuna.
La ditta che ha montato tutto questo, senza voler farne pubblicità, è svizzera e va menzionata, perché è decisamente leader oggi nella costruzione di infrastrutture sportive nel mondo: la Nüssli.
Bern Helmstad, il direttore generale dell’azienda, ha spiegato alla rivista inglese Sportbusiness International che nella struttura di Schladming hanno montato 2500 scalini, 40 box vip con 1400 tonnellate di materiale. Finito l’evento, sebbene nei pendii più ripidi sia stato necessario fare iniezioni di cemento, il terreno sarà restituito alla sua veste pre-mondiale. Come in una favola, tutto sparirà e torneranno i prati. Immagino che da subito, spenti i riflettori, sia iniziato lo smantellamento.
Sostenibilità o vitalità?
Questa è forse oggi la sfida maggiore che un organizzatore di eventi si trova a dover gestire: la sostenibilità.
Sostenibilità è una parola che oggi è d’obbligo nei fascicoli di pianificazione di un evento. Eppure, il “guru” del management, il professore Fredmund Malik, non ama molto questo termine, poiché esso ha in sé un senso di staticità. Ne ho già parlato scherzosamente in un mio altro post. Sostenibilità non ci dice che questo qualcosa nel dopo debba anche vivere. Sostenere (tenere sopra) significa in certo qual modo sopportare (portare sopra). E di strutture post evento anche solo in Italia ne sopportiamo fin troppe. Malik sceglie per questo una parola che contenga dinamismo: viability, vale a dire vitalità. Vivere significa dare e portare valore, e non solo valore monetario, significa soprattutto autorigenerarsi dopo.
Ovviamente non è solo una questione di parole. Le parole però servono per redigere linee guida, che dobbiamo interiorizzare e che ci guidano di volta in volta nei processi decisionali. Interiorizzare “sostenere” piuttosto che “vivere” fa una bella differenza.
Le domande importanti contro gli “elefanti bianchi”
La domanda allora è molto semplice: dopo, finita l’ubriacatura dell’evento, queste cose che abbiamo costruito ci servono? Le usiamo? Come? E quanto ci costeranno?
Ovviamente sono domande pertinenti soprattutto nei mega eventi come le Olimpiadi. Cattedrali nei deserti ne conosciamo molte, anche nel nostro paese, perché evidentemente queste domande non sono state fatte o peggio ancora: le risposte sono state truccate, falsate. Mentendo, spesso, pur sapendo di mentire, per convenienza politica e di immagine e di soldi.
Sempre di più anche il CIO richiede una garanzia per evitare questi disastri. Le cattedrali nel deserto, che in inglese si chiamano “white elefants”, danneggiano anche l’immagine olimpica oltre che il territorio violentato. Un primo esempio viene da Londra, dove il velodromo è divenuto punto di riferimento per corsi di ciclismo per bambini, corsi quasi tutti esauriti, un vero successo a quanto mi racconta una fonte direttamente dalla city.
Sochi, che ospiterà le Olimpiadi Invernali il prossimo anno, avrà delle venues modulari, vale a dire temporanee. Il principio è chiaro: se dopo qualcosa non serve o non si riesce a riutilizzare si deve togliere. ll mantenimento della struttura può essere garantito solo da un business plan a lungo termine. Una bella sfida per i prossimi Giochi Olimpici, soprattutto tenendo conto che saranno sì invernali ma in un’area geograficamente sub-tropicale. La gente qui va al mare, non a sciare. Ce la faranno?
Forse siamo solo all’inizio di nuove soluzione tecnologiche e architettoniche per risolvere positivamente il rischio di decadimento e violenza sul territorio. Ogni organizzatore di Olimpiadi insiste sulla sostenibilità, sulla legacy. Ma spesso viene tradito dai fatti post evento. Certo, un trampolino per il salto deve essere costruito e dopo l’evento non si formeranno certo le code di saltatori della domenica come a uno skilift. Questa pare proprio una delle prossime sfide di Nüssli: arrivare a costruire anche infrastrutture per la competizione che si possano smontare, come appunto un trampolino. Così dice Helmstadt: “Questa è la nostra attuale maggiore ambizione”.
Il presidente della Federazione Internazionale di Sci, Gian Franco Kasper, sempre a Sportbusiness International dice: “In Russia hanno appena fatto in pochi anni ciò che noi abbiamo fatto nelle Alpi in circa 150 anni.” Vale a dire trasformare un territorio vergine in una destinazione turistica. Ma che ne sará dopo di tutto questo? I russi sceglieranno Sochi per le loro vacanze invernali o continueranno a buttarsi sulle piste delle Alpi?
Non si tratta, è chiaro solo di infrastrutture. Anzi, esse sono l’aspetto esteriore di una sostenibilità o meglio di una vitalità reale. Sono la punta di un iceberg.
Allora. Come spesso in questo blog, guardo ai grandi per pensare ai piccoli.
Cosa possiamo imparare?
Il trampolino come metafora
Ogni evento, anche quello che non deve costruire tribune per 30.000 spettatori, deve chiedersi:
“E dopo?”
Un evento è qualcosa che passa, è effimero, è intangibile. Senza una chiara domanda sul dopo, sia esso un dopo infrastrutturale, o culturale, economico o sociale, questa intangibilità non si trasformerà in un effetto utile per una data comunità, ma sarà davvero come un colpo di vento di cui nemmeno ci si ricorderà, se non per qualche maceria sul campo. Una cosa inutile che sarà costata un sacco di soldi.
Il trampolino temporaneo, montato e poi smontato oltre che realistico è anche una metafora: cosa posso fare oggi con questo evento affinché esso sia un trampolino per altra vita, altre energie, altre innovazioni domani?