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Il Travel Blogger Non è un Lavoro

Creato il 05 aprile 2014 da Angelozinna

Il Travel Blogger Non è un LavoroIl travel blogger non è iscritto ad un albo. Non è iscritto ad alcun registro, non ha una qualifica particolare. Non ha bisogno di esperienza per cominciare, raramente ha una partita IVA o riceve una busta paga. Non è un professionista. Significa questo che fare il travel blogger non possa diventare un lavoro? In teoria no, perché lavoro, ai nostri tempi più che mai, è un termine generico che non è definito dai documenti di cui ci si trova in possesso. Il lavoro è qualsiasi attività, impiego, tramite il quale ci si guadagna da vivere e se qualcuno riesce a farlo in modo creativo, costruendosi degli schemi differenti da quelli tradizionali, ben venga. La possibilità esiste. Ma lasciando la teoria da parte, in quanti realmente hanno fatto dello scrivere di viaggi (su un blog) il proprio lavoro?

Giudicando da Twitter in molti. Basta passare qualche minuto ad aprire profili collegati in qualche modo al mondo del turismo o dei viaggi per trovarsi di fronte a decine, centinaia, (migliaia?), di #travelblogger. Inesistenti sono invece #operai, #dentisti, #commesse o #muratori, attività che nessuno sembra più svolgere. Neanche se c’è crisi. È vero, per essere travel blogger, e avere quindi diritto al rinomato titolo, solo due requisiti sono necessari: avere un blog, aver fatto dei viaggi. Non importa guadagnarci. Non importa farlo a tempo pieno. Non importa neanche essere bravi. Ora, pur non volendo togliere a nessuno la libertà di autoproclamazione e la grande soddisfazione che ne consegue, viene, però, da pensare che con il poco spazio a disposizione uno cerchi di scegliere il termine più accurato per descriversi e se tra tutti questo è proprio #travelblogger significa che ci sarà anche qualcuno che svolge questa attività otto ore al giorno e per più di qualche like.

Quindi il travel blogger è un lavoro? No, non proprio, almeno per come la vedo io. Per dare una spiegazione più chiara c’è un concetto che vorrei far passare: guadagnare da un travel blog e guadagnare per mezzo di un travel blog sono due cose molto diverse. Prendiamo, ad esempio, un comico o l’editore di una rivista. Queste figure ricevono uno stipendio per fare intrattenimento o informazione (quello che nel suo piccolo cerca di fare un blogger) e il loro impegno sta tutto nel creare continuamente nuove idee e materiale valido. Se sono bravi più persone ascoltano e l’azienda, lo sponsor o chiunque gli abbia dato fiducia, paga. È scontato dire che per i blog non funziona così? Non funziona mai così. Non ci si dovrebbe aspettare l’arrivo di uno sponsor a lungo termine che, come può succedere all’estero, dica “sei bravo, mi piace quello che crei, voglio che la tua faccia sia legata alla mia”, ma più l’arrivo di uno sponsor che dica “va bene, hai dei numeri, scrivi di me e ti pago”. Che va bene lo stesso, ma allora non sei pagato per fare il travel blogger, sei pagato per vendere pubblicità. Non sei pagato per scrivere quello che pensi, ma quello che ti viene chiesto di pensare.

L’aspetto morale, il codice etico, dei blogger non esiste. Ognuno fa quello che vuole, non ci sono regole, solo esperimenti andati a buon fine. E pretendere che tutti scrivano in modo genuino dopo aver capito come funziona il gioco non è realistico. Non c’è niente di male. Quando si comincia a sentire l’odore dei soldi facili (che sono pochi, ma sono facili) è un attimo cominciare a muoversi in modo diverso. Strategie, le chiamano, per far diventare quei pochi soldi facili tanti soldi facili, che nella maggior parte dei casi sono legati ai numeri, che a sua volta, nella maggior parte dei casi, non hanno niente a che fare con la qualità del contenuto. È vero anche che saper monetizzare in modo consistente è probabilmente più difficile che saper scrivere bene, molte di più sono le cose su cui ci si deve concentrare e perdere tempo e c’è solo da complimentarsi con chi riesce davvero ad inventarsi un lavoro dal niente. Un lavoro che però non è il travel blogger, è qualcos’altro.

Chi scrive sa che non arriverà mai uno sponsor singolo a pagare lo stipendio (come può succedere all’estero), tanto quanto sa che su internet l’unico modo per mettere insieme una cifra consistente è ottenere entrate minori da fonti multiple. Questo è possibile in molti modi, la pubblicità è il primo, ma c’è anche la creazione di prodotti o altri sistemi meno remunerativi. Tutti metodi legittimi, ma è necessario essere chiari: nessuno di questi è legato in modo diretto a ciò che scriviamo. La pubblicità arriva dai numeri, le vendite di prodotti dalla reputazione, tutti derivati degli articoli, ma solo in parte. Chi si presenta con una bella grafica è un passo avanti. Chi passa le giornate su Facebook e Twitter raggiungerà molte più persone. Chi sa come farsi trovare su Google è in vantaggio. Più conoscenze si hanno a disposizione più facile sarà crescere, ma una volta raggiunta l’esposizione massima saranno sempre le attività secondarie a rendere, non i post che continuiamo a scrivere. Per questo il travel blogger non è un lavoro: nessuno compra le nostre idee, le nostre opinioni, le parole che scegliamo. Piuttosto sono i lettori che sono in vendita o, peggio, il rapporto che con questi siamo riusciti a creare.

Il blog si può quindi considerare un prodotto? No, per chi punta alla pubblicità come entrata primaria il prodotto sono i lettori, ciò che si vende è il pubblico alle aziende o gli enti che scelgono di comprarne una fetta.

La mia suona come una critica, ma non lo è (va bene, solo un po’). Creare una piattaforma originale e costantemente interessante è una missione difficile, in particolare quando si parla di viaggi. Continuare a muoversi, cercare destinazioni e storie nuove, offrire spunti di valore e soprattutto farlo per passione e curiosità proprie è un grande impegno. Un impegno piacevole e appagante certo, ma pur sempre un impegno che costa soldi, tempo e, a volte, fatica. Cosa c’è di male ad inserire occasionalmente della pubblicità nel proprio sito? Niente, finché non è questa a dettare la qualità del contenuto. Qualsiasi lettore intelligente è in grado di capirlo ed accettare il compromesso che è necessario fare se si vuole continuare a migliorare, offrire materiale sempre buono. Il problema è quando a questo sistema ci si piega e ciò che si scrive non è più per chi legge, ma per chi offre qualcosa in cambio. Ma come capire dove si tira la linea tra un buon compromesso e un blogger venduto? Non si può, perché in questo gioco non ci sono regole e nessuno può dire come è opportuno comportarsi e tutti dovrebbero provare, sperimentare e capire sbagliando cosa funziona e cosa no. Il travel blogger non è un lavoro.

Nel dubbio continuo a pensare che il modo migliore per fare di un blog il proprio lavoro rimanga la vendita di prodotti propri. Il modo migliore non sarà forse il più redditizio, ma sicuramente il più trasparente, onesto, chiaro. E soddisfacente. Che sia questo un ebook, delle fotografie, delle magliette, o anche un evento, un abbonamento, un viaggio organizzato non importa: attraverso un blog indipendente si possono mostrare le proprie capacità a tutti per quello che sono, si comunica senza secondi fini, e se chi legge apprezza è probabile che decida che i prodotti che vendiamo valgono i soldi che costano. Vuoi mettere trovarsi ad aver venduto mille copie del proprio eBook, invece che dover scrivere del miglior hotel di Marina di Pisa dove non andrebbe neanche mia nonna perché qualcuno ti dà 30 euro o ti invita per un weekend a scrocco?

In ogni caso, la prossima volta che vi trovate a descrivere cosa fate, scegliete le parole giuste. Se avete scritto una guida mettete #scrittorediviaggi. Se guadagnate grazie a Youtube, mettete #videomaker. Se volete diventare giornalisti, scrivete #aspirantegiornalista. E infine, se la vostra principale qualità è promuovere tutto quello che vi viene chiesto di promuovere, mettetelo nero su bianco: #vendofollower.


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