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“Il trono vuoto” di Roberto Andò

Creato il 16 giugno 2012 da Sulromanzo

“Il trono vuoto” di Roberto AndòCome già sottolineato da più d'un recensore (La Porta e Onofri), con Il trono vuoto Roberto Andò si pone d'innanzi alla ardua scommessa di scrivere un romanzo sulla politica, sulla vacuità terrificante del potere politico e, inevitabilmente, sull'Italietta berlusconiana. C'è riuscito? Forse che sì, forse che no. Ma non è questo il punto. Piuttosto il punto è capire che tipo di romanzo, al suo esordio, Andò ci consegna. Nel risvolto di copertina si legge: «favola filosofica sulla rifondazione della leadership in un paese malato». Epperò a lettura ultimata si capisce bene che si tratta d'una definizione limitata. Ma procediamo con ordine.

Siamo a Roma. Enrico Oliveri, segretario del principale partito d'opposizione il cui consenso è ormai in caduta libera, snervato dalle «miserabili beghe di partito», lascia un semplice biglietto che rassicuri il fido collaboratore Andrea e la moglie Anna, e mette in pratica il piano b (forse da lungo tempo meditato) di staccare per qualche tempo la spina, concedersi una boccata d'aria, chiedendo asilo, in Francia, a Danielle, la fiamma dei vent'anni, l'amore che non si scorda mai. Alla politica come riduzione della vita alla mistificante e «illusoria onnipotenza del piano», contrappone la parentesi d'un tuffo nel passato, il viaggio verso dove tutto s'era rotto e incrinato, al luogo fisico e di vita da cui, giovanissimo, era fuggito («c'era un prima e dopo nel tracciato della sua esistenza. E il punto di non ritorno, o il luogo del possibile ricongiungimento, era certamente Danielle»). Un dissidio, quello del segretario, a incarnare la massima di Baudrillard (non a caso messa in calce al romanzo) circa il dialettico problema degli uomini di potere: di doverlo necessariamente esercitare e, insieme, di doversi affrancare, sul piano simbolico, da esso. L'avvertimento d'una coscienza divisa che si traduce in figura di personaggio, al chiarimento della cui condizione contribuisce la sintetica definizione del sempre raggelante Bernhard, che ne doppia il senso, sempre in epigrafe al libro: «ogni originale è di per sé una contraffazione». Sparito dunque il segretario, per togliersi dall'impasse è salvare il salvabile della già complicata situazione, entra in gioco (ad opera del suo braccio destro Andrea Bottini) lo sconosciuto doppio biologico di Enrico, il fratello gemello segreto, Ernani, filosofo toccato dalla malattia mentale, tanto celebrato dagli intellettuali quanto detestato dall'accademia; e soprattutto dotato di quella «verve luciferina» di cui è sprovvisto il segretario, pronto a stare - pienamente a suo agio - nei panni del fratello. Così lievita il plot narrativo, evolvendosi in risvolti peraltro assai prevedibili, come il risollevarsi inatteso delle sorti della campagna politica e l'innamoramento di Anna, per il fratello del marito. Ma il punto non è ancora questo. Che la vicenda serve poco più che come pretesto per scrivere anche un altro romanzo, quello d'una condizione esistenziale di profondo ristagno. Da questo momento in poi, il libro è costruito per capitoli alterni che rispecchiano lo squilibrio di forze tra i personaggi, nel parallelo sviluppo del racconto della fuga di Enrico e dell'ascesa, in termini di consenso, di Ernani. E se la parte dedicata ad Ernani, al mito del savio folle che sappia illuminare con spiazzante intelligenza le cose, può servire da insulina choc, scossa elettrica, uscita d'emergenza dalla stasi d'un paesaggio morale e politico assai depressivo, a incuriosire assai più è la curvatura dell'esistenza del segretario che si mette a inseguire il romanzo autentico della sua vita («cercare il punto in cui ciò che potrebbe accadere invade e offusca quello che è già accaduto»), da cui la medusa pietrificante del potere politico l'aveva per sempre allontanato, in un perdersi che si spera possa assomigliare a un ritrovarsi. Su questo ambiguo e vischioso crinale, nell'oscillazione fondamentale tra inseguimento del romanzesco e perdita di sé sta, a mio avviso, il senso supplementare del libro di Andò (forse il meno approfondito dai recensori).  Efficace poi a restituire il risvolto esistenziale del romanzo, la scelta della Winterreise di Schubert come colonna sonora per la segreteria telefonica del segretario: che altro intento potrebbe avere altrimenti, da parte di Andò, l'indugiare, narrativamente, sul fatto che vi sia una voluta interruzione, una deliberata congiunzione tra il lied numero 1 («come un estraneo sono comparso/come un estraneo me ne vado») e il numero 17 del ciclo («io ho finito di sognare:/che ci sto a fare fra coloro che dormono?»), se non per esprimere le ragioni intime del viaggio in fuga di Enrico che viene così assimilato a un'emblematica «figura della malinconia»?  

E' vero, il libro può essere letto come referto romanzesco dell'ormai conclamata patologia dell'intero corpo della nazione, col racconto, evocato per frammenti (su tutti l'incontro, fuori programma, tra il brillante finto segretario e il Presidente del Consiglio), dell'imbarazzo crescente della situazione politica italiana degli ultimi vent'anni e del suo principale protagonista; al quale si aggiunge la denuncia d'inadeguatezza delle forze d'opposizione impegnate nell'effimero tentativo di mettere a punto  un nuovo sogno di palingenesi, per risollevare il Paese dalla «catastrofe estetica» e morale (e pure non evita di affondare il dito nella piaga di pose e retaggi culturali tipici di certa intellettualità di sinistra, di cui anche il vero segretario sembra essere il prodotto). Ma il tono prevalente qui più che romanzesco, è (come detto) filosofico, e il potere e la sua più prosaica e brutale epifania, la politica, necessitano di un'opera di demistificazione radicale, in quanto macchina assolutamente perversa, perenne «impostura», «invenzione permanente della realtà»; punto medio tra la noia, il nulla e un coriaceo disvivere, che può essere messo in luce, per contrasto, solo attraverso la parabola esistenziale del segretario. Non a caso il j'accuse più lucido e veemente lo rintracciamo nella parte più significativa degli appunti di Enrico (prontamente occultata dal Bottini) dove la carriera politica viene vista come un consegnarsi al fallimento, per il farsi sensibile alla sola sirena incantatrice del potere. E non a caso, ancora, Andò nel romanzo, chiama in causa le parole di Pasolini e Sciascia su Moro, circa la malattia del linguaggio, l'«illusionismo più efferato», l'insulso basso continuo d'insignificanza che è la retorica del potere (e a noi pure sovviene l'afasia d'un Empedocle contemporaneo come in Catarsi di Consolo), il cui abisso misterioso e ambiguo è evocato sin dal titolo del romanzo.

Apologo quasi sciasciano sul potere e insieme romanzo di smarrimento esistenziale, Il trono vuoto di Roberto Andò sa rendere compiuta testimonianza d'una ormai dilatata stagione di crisi, dove,  come due opacità tangenti, lo spaesamento del singolo e la stasi morale e collettiva, sembrano del tutto compenetrarsi e dissolversi l'uno nell'altra.

E se Ernani (in quella che, per quanto altra e accattivante, per quanto di segno opposto, rimane una retorica, pur sempre una retorica) cita nel comizio di chiusura il Brecht di A chi esita, il melanconico Enrico, compiendo un estremo atto di coraggio, anziché rientrare nei ranghi del suo mondo (finendo per confondersi col fratello), avrebbe trovato giovamento nel riprendere in mano il Flaiano del Diario degli errori e fare propria quell'autentica bartlebyana "Filosofia del rifiuto", assai più radicale del timido diniego (anch'esso retorico) che si propone la sua spaesata coscienza e che solo per un attimo ha tentato di mettere in pratica con il ritrarsi nella fuga; avrebbe dovuto, forse, proseguire la sua fuga, lontano dai cani e dagli sciacalli di sempre, come succede nell'ultimo lied della Winterreise di Schubert, lasciandosi trasportare dalle note ipnotiche del suonatore d'organetto. Ma questa sarebbe poi tutt'altra storia.

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